Una passeggiata lunga sette anni

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LightJotun91
00domenica 24 novembre 2013 13:46

In un anno Paul Salopek ha attraversato l’Etiopia camminando accanto ai suoi cammelli senza incontrare nessun segno di civiltà umana, ha mangiato un hamburger in una base statunitense a Gibuti ed è stato scortato nel deserto dell’Arabia Saudita. Gli restano da percorrere appena 32mila chilometri.

Il progetto è ambizioso: rifare il cammino delle migrazioni umane, dall’Etiopia al Cile, in sette anni. Dopo aver già camminato 1.200 chilometri e incrociato almeno cinque lingue diverse, ha riempito di annotazioni quaranta taccuini. Ora lo aspettano l’Iraq e l’Afghanistan (salterà la Siria per questioni di sicurezza) e poi andrà verso nord.

Salopek, giornalista statunitense due volte premio Pulitzer, progetta di raccontare la sua esperienza scrivendo un articolo all’anno sul National Geographic, che è lo sponsor del viaggio. Intanto, ecco il suo diario.

outofedenwalk.nationalgeographic.com/






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ZX24
00domenica 24 novembre 2013 13:50
Re:

Ora lo aspettano l’Iraq e l’Afghanistan (salterà la Siria per questioni di sicurezza)




Questo fa abbastanza ridere, però.

Detto questo grandissima figata.
Steven Seagull
00domenica 24 novembre 2013 13:53
Ma è meraviglioso. [SM=x3221968]

Alla fine dovrà farsi seguire da un camion ripieno di taccuini.
Dapaisu
00domenica 24 novembre 2013 14:10
Beato lui che ha i mezzi per fare tutto ciò :ranieri:
The Real Deal
00domenica 24 novembre 2013 14:12
Spettacolare, pagherei per andare con lui.
Mark Noble
00domenica 24 novembre 2013 14:38
Figatona.
Mein Teil
00domenica 24 novembre 2013 14:56
Spettacolare.
Greg Valentine
00domenica 24 novembre 2013 18:28
Poveri cammelli.
LightJotun91
00sabato 7 dicembre 2013 00:16
Trentatremila chilometri, quattro continenti, sette anni in viaggio. A piedi. Per un totale di 30 milioni di passi, più o meno. Paul Salopek - 51 anni, giornalista e scrittore, ex inviato di guerra e corrispondente dall'Africa, due premi Pulitzer vinti - sta girando il mondo sulle orme (e con i mezzi) dei nostri antenati, i primi uomini che circa 60 mila anni fa lasciarono l'Africa e in poche migliaia di anni riuscirono a colonizzare l'intero pianeta. È partito a gennaio da Herto Bouri, un villaggio nel cuore dell'altopiano etiopico dove sono stati trovati i resti fossili di una delle più antiche specie di ominidi. Ha attraversato il deserto della Dancalia in compagnia di una guida e di un paio di dromedari, fino a Gibuti, dove si è imbarcato per l'Arabia Saudita. Proseguirà per il Medio Oriente, attraverserà l'Asia centrale, risalirà dalla Cina fino alla Russia siberiana, passerà in nave lo Stretto di Bering, sbarcherà in Alaska e scenderà lungo tutta la costa occidentale del continente americano, sempre camminando, "a cinque chilometri l'ora, la velocità
per cui è programmato il nostro corpo", dice. La meta finale è la Terra del Fuoco, il punto più lontano raggiunto dall'uomo nella sua colonizzazione delle terre emerse. Se tutto va secondo i programmi, ci arriverà nel 2020.

Oltre a un cambio d'abito, qualche medicina, cibo e acqua, carta e matita, Salopek porta nello zaino un telefono satellitare e un computer portatile. Aggiorna costantemente il suo blog e ogni tanto si affaccia su twitter. Ma alla velocità con cui le informazioni si diffondono nell'era della rete contrappone il suo slow journalism, una filosofia che per sua stessa ammissione ricorda quella di Slow Food. "La sintetizzerei in una parola: qualità", spiega, raggiunto al telefono durante una pausa del suo viaggio. "Qualità nel cibo è un pomodoro cresciuto al sole invece che sottoposto a trattamenti chimici che accelerano la maturazione. Qualità nella scrittura significa poter approfondire, fare collegamenti, scoprire che cosa c'è dietro un titolo di giornale o una notizia riassunta in 30 secondi da un servizio in tv".

Dove si trova adesso?
Sono in Giordania, ho appena attraversato il confine con l'Arabia Saudita. Finora ho percorso più o meno 2.000 chilometri.

Come si sente fisicamente? I piedi?
Sto molto bene, non ho avuto grandi problemi. È tutta la vita che cammino, quindi direi che anche i piedi sono abituati.

Quante paia di scarpe ha consumato?
Uno solo, ma ormai è ridotto a brandelli. Dovrò comprarmene uno nuovo.

Com'è la sua giornata?
Finora ho viaggiato soprattutto su terreni desertici, tra Etiopia e Penisola arabica. Abbiamo vissuto un po' come i beduini di 100, 200 anni fa: sveglia all'alba, colazione con un sorso di tè e un pezzo di pane e formaggio, poi camminare fino al tramonto, accamparsi per la notte, eccetera. Man mano che mi avvicino al nord del mondo il paesaggio cambierà, sarà dominato dalle automobili, ci sarà più gente in giro, e certo non potrò dormire all'aperto. Dovrò chiedere ospitalità alle famiglie del posto, cambierà anche il mio modo di scrivere.

Viaggia da solo o in compagnia?
Cercherò di essere sempre accompagnato. Amo la natura, amo stare all'aria aperta, ma questo progetto riguarda soprattutto la gente, gli esseri umani. Finora ho camminato con pastori nomadi, giornalisti disoccupati, lavoratori dei pozzi di petrolio in vacanza, soldati in congedo: tutte queste persone sono una finestra sulla comunità in cui vivono. Se viaggiassi da solo diventerebbe molto noioso: rischierei di raccontare solo i pensieri che mi vengono in testa.

Si è mai sentito in pericolo? Prevede di utilizzare scorte armate quando attraverserà zone di conflitto?
Ho fatto l'inviato di guerra per buona parte della mia carriera e non mi è mai piaciuto avere gente armata intorno. Io per primo naturalmente non porto armi e non lo farò mai. L'idea è di prevenire i pericoli parlando con la gente, in modo da evitare le zone di rischio. È un po' il paradosso del lavoro che sto facendo: quasi sempre i giornalisti corrono incontro al pericolo, in macchina, in aereo, si precipitano verso le zone pericolose. Io penso che tra i vantaggi dell'andare più piano, a cinque chilometri all'ora, ci sia la possibilità di assorbire le informazioni in maniera più chiara dalla gente che incontri. Sei costretto a parlare con la gente invece di sfrecciare via in macchina con i finestrini alzati. In questo modo puoi avere il polso della situazione, una chiara percezione delle aree dove ci sono problemi, in modo da evitarle. Finora non ho avuto grandi problemi.

È una delle chiavi del suo viaggio: lo slow journalism contro il parachute journalism, quello degli inviati che si "paracadutano" nelle zone di conflitto e in pochi giorni devono capire e spiegare tutto...
Quando faccio interviste molti mi chiedono prima di tutto come penso di affrontare i pericoli. Certo, c'è un fattore di rischio nel percorrere a piedi 35 chilometri al giorno, attraversando i paesaggi e le situazioni più varie, ma questo progetto è stato concepito e, spero, messo in pratica più come un viaggio mentale. È un racconto, una narrazione, un guardare a quello che succede oggi alla luce del passato e della storia. La parte avventurosa - viaggiare con i dromedari, il problema delle scarpe, il deserto, ecc, è più che altro uno sfondo per una storia di idee. E una delle idee che lo guidano è proprio questa: anche in zone di guerra, anche quando c'è un conflitto il 90 per cento della gente continua a fare la vita di tutti i giorni. I giornalisti, i fotografi corrono incontro al rumore delle sparatorie: è quello che vogliono i direttori dei giornali, si possono fare foto d'impatto, puoi ragionare in termini di bianchi contro neri e non per sfumature. L'ho fatto anch'io. Ma persino in questo scenario, se sposti l'obiettivo dalla gente che sta combattendo sulle barricate, se ti giri di 180 gradi vedi una donna che sta cucinando del riso e lo sta vendendo all'angolo della strada, a soli 50 metri di distanza. La vita normale ha una sua forza, resistenza, e va avanti anche nelle circostanze più estreme. Questo non significa che io minimizzi il problema, che eviti di proposito la guerra. Ho incontrato profughi, gente che scappava, scrivo di tutto quello che vedo.

Uno degli episodi che mi hanno colpito leggendo il suo articolo per National Geographic è la sua descrizione di un'"oasi" del deserto etiopico: i pastori afar ci vengono in massa da molto lontano, ma non più per raccogliere acqua, bensì per caricare il cellulare a un piccolo generatore elettrico. Lei parla dell'irruzione della modernità anche in queste terre remote senza sguardi nostalgici, senza rimpiangere una presunta purezza dello stile di vita tradizionale...
Uno dei dati che ho preso in considerazione per mettere a fuoco la mia idea è che oggi circa il 30% della popolazione mondiale ha un accesso continuo al web attraverso telefoni e tablet, ma quando arriverò nella Terra del Fuoco, tra sette anni, quella percentuale sarà salita all'80-90 per cento. Pensiamo a quanti cambiamenti porterà questa tecnologia nella coscienza dell'umanità: io non so come ci cambierà, nessuno lo sa, ma credo che sarà un cambiamento molto grande. In questo viaggio uso il passato come una guida, una traccia che mi conduce da un luogo all'altro, ma non sono nostalgico. Non è che vado a piedi alla ricerca di popoli indigeni e incontaminati, non so nemmeno cosa significa il termine "popoli indigeni"; loro di certo non si definiscono così, è un'idea imposta da altri su quelle culture. Non credo che certi popoli - come gli afar, pastori e mandriani - abbiano una specie di società perfetta e immutabile. Loro hanno avuto accesso ad alcune tecnologie e hanno scelto quali adottare. Finora essenzialmente due: il kalashnikov, perché è ottimo per impedire che gli altri pastori si avvicinino al tuo pascolo, e il cellulare, perché così puoi chiamare vari compratori e strappare un prezzo migliore per le tue capre. Trovo affascinante il modo in cui l'umanità si adatta alle nuove tecnologie, è una storia che continua.

Si ferma ogni tanto?
Certo, per approfondire meglio una storia, o per riposarmi, raccogliere informazioni, scrivere. Sono stato fermo in una città saudita per tutto il mese di Ramadan: tutti digiunavano, me compreso, e andare in giro nel deserto a digiuno non è molto prudente.

E la sua famiglia? Tornerà a casa per vederla?
No, l'idea è che ogni tanto vengano loro a trovarmi e a passare un po' di tempo con me. E certo, ho già detto ai miei media partner che se ci sarà assoluto bisogno di me potrò prendere un aereo e tornare a casa. Ma idealmente vorrei fare come gli antichi marinai, o i viaggiatori dell'antica Grecia, o i mercanti veneziani: loro partivano e sparivano per tre, cinque, sette anni. Ecco, io voglio fare come loro.

C'è un incontro che l'ha colpita più degli altri?
Per attraversare il Mar Rosso da Gibuti all'Arabia Saudita, mi sono fatto dare un passaggio da una nave cammelliera. Portava 9.000 animali al macello, quindi era già un viaggio malinconico. In più, gli ufficiali della nave erano tutti siriani, lontani dal loro paese in guerra. Parlando con loro ho capito che cosa significa essere senza patria, non avere più un posto dove tornare.

Il suo articolo per National Geographic comincia con l'incontro con un pastore etiope che le chiede: "Sei pazzo?". Quante volte si è posto la stessa domanda in questi mesi?
È una domanda che mi faccio da così tanto tempo che questo viaggio non cambia molto le cose. Voglio chiarire però che non sono partito per portare a termine un'impresa sportiva, non voglio entrare nel Guinness dei Primati. Sono qui perché penso che andando più piano il mio lavoro migliorerà, avrò più storie significative da raccontare. Se smettessi di trovarlo interessante, potrei fermarmi anche domani. Ma finora è stato interessantissimo.
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