I fondi elargiti a Paesi europei in difficoltà come Irlanda, Grecia e Portogallo, un domani Spagna e poi, forse, Italia sono gravati da interessi tutt’altro che simbolici e concessi in cambio di giri di torchio sulle rispettive popolazioni.
Ovunque la scusa del risanamento dei conti pubblici (spesso dissestati a causa dei soldi spesi per salvare le banche) è stata utilizzata per sdoganare l’opera di smantellamento dello Stato sociale e di mortificazione dei redditi da lavoro
Ci vuole un certo coraggio a chiamarli aiuti. I fondi elargiti a Paesi europei in difficoltà come Irlanda, Grecia e Portogallo, un domani Spagna e poi, forse, Italia sono infatti gravati da interessi tutt’altro che simbolici e concessi in cambio di giri di torchio sulle rispettive popolazioni. Ovunque la scusa del risanamento dei conti pubblici (spesso dissestati a causa dei soldi spesi per salvare le banche) è stata utilizzata per sdoganare l’opera di
smantellamento dello Stato sociale e di mortificazione dei redditi da lavoro. Un approccio che, oltre a non aver sinora sortito nessun risultato positivo per l’economia, appare ancora più stridente se confrontato con il trattamento riservato alle banche. Per loro i prestiti elargiti da Banca centrale europea e Unione europea a costi irrisori e senza nessun vincolo di utilizzo. Giusto qualche blanda raccomandazione ‘pro forma’ e via.
Finanziamenti che arrivano dopo che i singoli Stati del Vecchio Continente hanno messo in campo la bellezza di 2.300 miliardi di euro per riparare le falle dei loro sistemi bancari. Questa la situazione attuale dei Paesi che hanno chiesto e ottenuto fondi di sostegno.
PORTOGALLO. Lisbona ha ricevuto dalla famigerata Troika (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Unione Europea)
un prestito da circa 80 miliardi di euro a un tasso del 4% annuo. In base ai calcoli del ministero delle Finanze alla fine i portoghesi pagheranno 35 miliardi di euro in interessi, più o meno 3.500 euro a testa. Ma non finisce qui perché i fondi sono arrivati in cambio di un progressivo indebolimento del welfare e di una decisa compressione del costo del lavoro. Secondo gli accordi
la spesa pubblica dovrebbe venire quasi dimezzata in quattro anni. I fondi per farmaci e assistenza ospedaliera sono già stati decurtati per quasi un miliardo di euro. Sul fronte lavoro gli stipendi sono scesa in media del 7% e i lavoratori sono stati obbligati a sottoscrivere un’assicurazione contro la disoccupazione. Mentre la popolazione è sottoposta a questa cura lacrime e sangue
le banche portoghesi hanno preso a prestito dalla Banca Centrale Europea circa 50 miliardi di euro (non esistono dati ufficiali ma solo stime) nell’ambito del programma di iniezione di liquidità (LTRO) varato da Mario Draghi tra fine 2011 e inizio 2012. Come per tutte la banche che hanno usufruito dei fondi
il tasso è fissato all’ 1% e non esistono vincoli all’utilizzo.
IRLANDA.
Le cifre sono simili a quelle del Portogallo e il gioco è sempre lo stesso, alle banche viene dato tanto in cambio di quasi niente, alla popolazione poco in cambio di quasi tutto. Dublino fu costretta a chiedere aiuto perché il Governo decise di farsi garante di tutte le perdite del sistema bancario nazionale, i cui conti apparivano devastati dopo lo scoppio della bolla immobiliare, portando così il suo debito dal 25 all’80% del Pil in soli tre anni. Arrivò così un assegno di
85 miliardi di euro a firma Fmi ed Unione europea. Come per i portoghesi gli interesse che gli irlandesi dovranno pagare attraverso le tasse è di circa il 4% (varia a seconda delle scadenze delle diverse tranches) e come accompagnamento c’è da trangugiare il solito cocktail indigesto di misure su welfare e lavoro.
Da qui al 2014 la spesa per sanità, scuole, assistenza verrà ridimensionata del 13%, gli stipendi pubblici sono già stati ridotti del 20% mentre sul salario minimo, che riguarda tutti, è arrivata una sforbiciata dell’11 per cento. E ancora aumento dell’Iva, delle imposte sui redditi, delle tasse universitarie con l’obiettivo finale di garantirsi un maggior gettito fiscale di 5 mld di euro l’anno. Vengono invece risparmiate le aziende che conservano la tassazione super favorevole del 12,5% sui loro profitti. E le banche? Anche quelle irlandesi hanno approfittato ampiamente della maxi offerta Bce. Nei loro forzieri sono arrivati quasi 80 miliardi di euro con il solito tasso dell’1% e assoluta libertà di impiego.
GRECIA. Per il malato più grave il ‘successo’ della cura dell’austerità a firma Bce, Fmi, Ue è sotto gli occhi di tutti:
Pil a meno 5%, conti pubblici che continuano a deteriorarsi, disoccupazione passata dal 17 al 25% in un anno. Finora a favore di Atene sono stati stanziati prestiti per un valore che si avvicina ai 240 miliardi di euro, in parte già corrisposti in parte programmati per il prossimo anno con tassi di interesse che oscillano tra il 3,5 e il 4% (solo dalla prima tranches la Germania ha già incassato 400 milioni di euro in interessi). La lista dei sacrifici imposti alla popolazione si allunga di giorno in giorno e comprende misure che ormai sfiorano il grottesco. Anche qui gli ingredienti base sono tagli a sanità, assistenza, spesa sociale e ghigliottina sugli stipendi: – 25% quelli pubblici, – 15% quelli privati e salario minimo ridotto del 22%. Più complessa la situazione del settore bancario che non partecipa all’abbuffata di fondi LTRO ma che prende ossigeno dal programma Emergency liquidity assistance sempre made in Francoforte, ma con condizioni un po’ più severe.
Le misure imposte alla Grecia:
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La troika ad Atene: “Evacuate le isole con meno di centocinquanta abitanti”
Vicino l’accordo con il governo per tagli da 13 miliardi. Intanto continua, con Coca-Cola Hellenic, l'emorragia delle multinazionali dalla Grecia. E Bloomberg conferma le aspettative sulla produzione aurifera del Paese
“Evacuate le isole con meno di centocinquanta abitanti”, firmato troika. Nel sessantottesimo anniversario della liberazione di Atene dai nazifascisti (era il 12 ottobre del 1944) i rappresentanti di Bce, Ue e Fmi, impegnati in vertici no stop in queste ore nella capitale ellenica per concedere l’ulteriore tranche di aiuti che eviti la bancarotta della Grecia, accanto a misure draconiane come tagli di dipendenti pubblici e fondi per la sanità, hanno tirato fuori dal cilindro anche questa singolare richiesta, sulla quale in tarda serata c’è stata la smentita da parte del commissario europeo Olli Rehn. Come se quel provvedimento dal sapore amarissimo per chi su un’isola vi è nato e vi lavora possa da solo influire sul mare di debiti che affliggono la Grecia. C’è anche questa dose di assurdità all’interno del pacchetto di misure che sta provocando una rivolta sociale in un paese stremato dal memorandum, con la disoccupazione che sfonda la soglia del 25% e con i dati Unicef che gridano tutto il loro dolore: 400 mila bambini sottonutriti. E che, come confermano fonti ministeriale, potrebbe vedere la luce entro domenica, in virtù di un accordo quasi raggiunto tra governo di Atene e troika.
Il pacchetto comprende tagli alle pensioni per circa 4,9 miliardi di euro nel 2013, oltre a tagli su salari, indennità e prestazioni sanitarie per un ammontare complessivo di 13,5 miliardi di euro in due anni. Al momento il dibattito sarebbe ancora “aperto” sui 300 milioni di euro di tagli alle prestazioni di invalidità. Ma in linea di massima le ottantanove riforme fiscali strutturali proposte dalla troika dovrebbero vedere la luce in parlamento prima dell’eurovertice del prossimo 18 ottobre. Anche se è sulla recessione che si giocherà molto di questa partita: in quanto la troika ha già fatto filtrare la sua posizione in merito. Si aspetta il 5% del Pil nel 2013, mentre la parte greca è ferma al 3,8% del PIL. All’interno del pacchetto finale da 13,9 miliardi dal ministero confermano che vi sarà una clausola di condizionalità, ovvero il fabbisogno di finanziamento che se effettivamente approvato, potrebbe essere propedeutico alla famosa proroga di un biennio (come ha lasciato intendere ieri anche il direttore dell’Fmi Christine Lagarde), e per complessivi 12 miliardi di euro. Su cui ancora pesa ancora il veto di Berlino. Il ministro delle finanze Schaeuble per ben due volte da Tokyo ha infatti ribadito che “non c’è alcuna alternativa alla riduzione del debito degli Stati della zona euro”.
Intanto nel giorno in cui anche la Coca-Cola Hellenic, la più grande azienda di imbottigliamento della Grecia, decide di trasferirsi in Svizzera, a causa delle tasse e del fatto che le banche hanno chiuso i rubinetti alle imprese, nelle maggiori città del Paese il termometro sociale resta caldissimo. La confederazione nazionale dei Commercianti e Artigiani ha annunciato di avere aderito allo sciopero generale di giovedì 18 ottobre, indetto dalle sigle sindacali Adedy e Gsee, proprio in coincidenza con l’eurovertice di Bruxelles. Tutte le saracinesche delle attività commerciali saranno abbassate per protestare contro la “drastica riduzione dei redditi, l’elevata e irrazionale tassazione e la forte diminuzione della domanda che distrugge le aziende e i posti di lavoro”, scrivono le forze sociali sui rispettivi siti internet. Il consiglio nazionale del Gsee rileva che i recenti dati dell’Autorità di statistica sulla disoccupazione sono il frutto “tragico della politica di austerità attuata selvaggiamente dalla troika e dal governo”. Anzi, indicano la percentuale effettiva non al 25,1% così come riferiscono i media bensì del 30% e con previsioni desolanti. Mentre la disoccupazione sta strangolando la società greca e la recessione raggiunge almeno il 7% la sfida sociale, rilevano, è da ritrovare in un’ulteriore “emorragia di lavoratori e di pensionati”.
Per queste ragioni tra sei giorni il paese sarà ancora una volta paralizzato da una mobilitazione generale. Ma il momento di difficoltà complessivo è percepito nettamente dai cittadini, come rivela l’ultimo sondaggio diffuso oggi dal canale televisivo Skai: quasi la metà dei greci (48%) ritiene che, se le elezioni politiche si svolgessero oggi, a vincerle sarebbe il partito di opposizione Syriza guidato da Alexis Tsipras. Ma allo stesso tempo il 32%ritiene che l’attuale coalizione di governo sia preferibile. Inoltre l’83% si dice certo che le nuove misure di austerità avranno il “sì” del Parlamento. Mentre l’80% ha risposto di ritenere che le cose in Grecia “vanno verso la direzione sbagliata” e il 72% si dice contrario al “minimonio” firmato da Atene con i creditori internazionali. La stessa percentuale, il 72% ha ammesso di trovarsi in forti difficoltà economiche.
Uno scenario su cui potrebbe filtrare un po’di luce dall’annuncio apparso sull’agenzia di stampa Bloomberg che, dopo un biennio di inchieste e di rumors in questo senso apparsi anche sulla stampa ellenica, ammette che la Grecia ha il potenziale per diventare il più grande Paese europeo produttore di oro entro il 2016. La presenza di giacimenti di oro e di argento è un dato di fatto, come testimoniano molti sopralluoghi (anche di società estere) già effettuati in svariate località del paese, come la penisola Calcidica. Secondo Bloomberg però l’ostacolo si chiama burocrazia: molte aziende che cercano di entrare nel settore devono scontrarsi con la difficoltà nell’ottenere autorizzazioni, con un aggravio di tempi che fanno lievitare i costi. La società canadese Goldfields pare abbia tentato per più di cinque anni di ottenere la necessaria licenza mineraria ma senza risultati.
SPAGNA.
Alle banche iberiche non sono bastati i circa 300 miliardi presi in prestito dalla Bce all’1 per cento. Hanno avuto bisogno di altri 100 miliardi di euro elargiti a condizioni un poco più onerose attraverso il fondo “Salva Stati”(il virgolettato è d’obbligo) per rafforzare il loro capitale. Visti i precedenti è comprensibile che il governo Rajoy stia facendo di tutto per evitare un intervento a sostegno del sistema paese che arriverebbe sotto forma di acquisti di titoli pubblici da parte della Bce subordinato all’accettazione di una serie di impegni. Come accaduto per Grecia, Irlanda e Portogallo il ricorso al soccorso esterno vorrebbe dire sottoporsi definitivamente ai diktat di Bruxelles e Francoforte. Madrid ha comunque già una mano legata essendosi impegnata con l’Unione Europea a ridurre il deficit pubblico esploso negli ultimi anni. E così
negli ultimi due anni sono arrivate nuove tasse, tagli alla spesa pubblica per quasi 30 miliardi di euro, riduzione del numero dei dipendenti pubblici e dei loro stipendi , riforma del mercato del lavoro nell’ottica di una maggiore flessibilità. E pensare che potrebbe essere solo un antipasto e che un destino non molto diverso potrebbe riguardare anche noi. Le avvisaglie non mancano.