Di Pietro, mani pulite, gli USA

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AtomBomb
00giovedì 30 agosto 2012 17:22
"Così intervenni per spezzare
il legame tra Usa e Mani pulite"

A La Stampa l’ultima intervista dell’ex ambasciatore americano
in Italia Reginald Bartholomew:

«La violazione dei diritti di difesa un pericolo per la democrazia»

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto. «Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò. Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia. Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza. Raccolsi il suo racconto - che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite». Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita. Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro. Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto. A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica - a cui aprì le porte dell’Ambasciata - e non solo opera dei magistrati. Ecco il suo racconto.

Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma. «L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce. In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato. «Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service. Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo. «Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite - dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato».

Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto. Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite». Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone». Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra. «Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite». Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti. «I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti». Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». «D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò - rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia». Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me». Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo». L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi. «Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione - dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema».

L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi. «La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”». Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi». A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.

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30/08/2012 - I RAPPORTI TRA ITALIA E USA

"Di Pietro mi preannunciò
l’inchiesta su Craxi e la Dc"



L’ex console a Milano Peter Semler: «Si confidò qualche mese prima dell’arresto
di Chiesa: aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato»


MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Alcuni mesi prima di Tangentopoli Antonio Di Pietro anticipò al console generale americano a Milano che l’inchiesta avrebbe portato a degli arresti e che le indagini erano destinate a coinvolgere Bettino Craxi e la Dc. A ricordarlo è proprio Peter Semler, durante un incontro nella sua tranquilla casa agli Hamptons dove trascorre l’estate fra spartiti di musica russa sul pianoforte, fiori ben curati nel patio e la tv accesa sul canale del golf. L’ex console, 80 anni, ha il fisico asciutto, la voce mite e grande premura nel ricordare gli anni passati in Italia, iniziati quando nel 1983 arrivò a Roma come consigliere militare-politico, gestendo l’arrivo dei missili Cruise a Comiso e disinnescando nel 1986 la crisi Usa-Italia seguita dall’attacco di Reagan contro la Libia di Gheddafi. Ma, trascorsi venti anni dall’inizio di Tangentopoli, ritiene soprattutto giunto il momento di ricordare come visse, dal suo osservatorio, quella stagione che portò alla fine alla Prima Repubblica.

Quando arrivò a Milano?
«Nell’estate del 1990. Era agosto e non c’era nessuno, tutto sembrava normale con i soliti Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che decidevano ogni cosa a Roma. C’era anche Craxi, il figlio Bobo fu una delle prime persone che vidi».

Che approccio ebbe alla politica milanese?
«Giuseppe Bagioli, un dipendente italiano al Consolato, era il mio consigliere politico a Milano, viveva di politica interna, sapeva tutto di tutti. Una vera enciclopedia vivente, mi fu di aiuto straordinario. Una delle prima persone che mi portò fu il figlio di Craxi, poi vidi quelli della Lega e quindi i comunisti. Volevamo parlare con tutti e così facemmo. Mi resi conto che vi sarebbe stata un’esplosione, come poi avvenne. La Lega nel Nord aveva il centro a Milano, e poi qualcosa in Veneto».

Come ricorda i leghisti?
«Avere a che fare con loro era tutt’altra cosa rispetto a Roma: arrivavano puntuali ai pranzi e poi tornavano subito a lavorare.
Borgioli mi fece parlare con gente che esprimeva scontento verso Roma, ma quando andai a dirlo all’ambasciatore a Roma Peter Secchia mi disse: “Che vai dicendo? Ieri ho visto Cossiga e Andreotti, è tutto ok, governa sempre la stessa gente”. Io rispondevo che i cambiamenti sarebbero stati grandi ma era parlare al vento».

Da dove nasceva il contrasto di interpretazioni con l’ambasciata Usa a Roma?
«All’ambasciata a Roma c’era all’epoca Daniel Serwer, che sosteneva la tesi che nulla sarebbe mai cambiato in Italia. Ad un incontro a Roma a cui parteciparono tutti i nostri generali, della forze del Mediterraneo, mi dissero che non avevo capito niente».

Perché era così convinto di avere ragione?
«Per quello che sentivo a Milano. Ricordo che un primo gennaio ebbi un pranzo con due leader della Lega e quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”. Ma a Roma Secchia continuava a dirmi: “Basta perdere tempo con queste storie”».

Conobbe Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero?
«Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti».

Quando avvenne il colloquio?
«Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini,
fu lui che mi cercò attraverso Bagioli. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc».

Stiamo parlando di circa quattro mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio del 1992...
«Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene. Di Pietro mi preannunciò gli arresti ma per me non era chiaro cosa sarebbe avvenuto».


Che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite?
«Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici, ci vedevamo in luoghi diversi».

Con Di Pietro c’era un’intesa più forte?
«Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo».

Cosa pensava delle indagini?
«Ero in favore di ciò che Di Pietro faceva ma era una materia legale assai complessa.
Il mio ruolo era di dire a Secchia cosa faceva Di Pietro».

Come si comportava Di Pietro negli incontri con lei?
«Di Pietro con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato».

Cosa la colpì di lui?
«Borgioli mi disse che Di Pietro sapeva usare il computer, a differenza di gran parte degli italiani. Di Pietro era un personaggio straordinario, cambiò l’Italia».


Come nacque la visita negli Stati Uniti?
«Sono stato io a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini».

Chi incontrò Di Pietro durante la visita?
«Gli fecero vedere molta gente, a Washington e New York».

Come reagirono i comandi militari Usa a Tangentopoli?
«I militari davanti a Tangentopoli non si interessavano troppo alla politica, volevano solo essere sicuri che avrebbero potuto continuare a muovere liberamente le loro truppe e navi. E che le armi nucleari fossero al sicuro».


Come ricorda l’atmosfera di Milano in quel 1992?
«A Milano il cambiamento era nell’aria. Conoscevo molte persone. Ricordo Pirelli e c’era un industriale importante, di origine siciliana, basso, con il cognome di quattro lettere che mi diceva le cose. Mario Monti all’epoca guidava la Bocconi, andavamo a cena assieme e gli procuravo oratori americani. Berlusconi non lo conoscevo bene, una volta ebbi con lui un pranzo assai lungo, Peter Secchia aveva in genere bisogno di 45 minuti per raccontarsi, scoprì che c’era qualcuno capace di parlare assai di più».

Terminata la conversazione Semler ci accompagna verso l’uscita dimostrandosi ancora un attento osservatore dei fatti politici italiani. E passando vicino al pianoforte osserva: «Continuo a suonarlo perché è stata mia madre a insegnarmelo».
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E intanto Panorama pubblica i testi delle intercettazioni di Napolitano, nelle quali attaccherebbe Di Pietro, Berlusconi e i magistrati di Palermo.

La replica di Di Pietro:

"C'è un solo modo per eliminare ogni speculazione" sulle intercettazioni telefoniche ai danni del capo dello Stato, ovvero "che Napolitano renda noto il contenuto di quelle chiamate. Visto che la procura ha detto che le telefonate non hanno rilevanza penale, che ci sarà mai?".

"Napolitano - ha detto Di Pietro ai microfoni di Rainews24 - ha un unico modo di evitare ricatti e speculazioni: renda noto come sono andati i fatti e non utilizzi il suo ruolo per delegittimare la procura di palermo". Del resto , per Di Pietro Napolitano "ha avuto 7 anni per intervenire e dire che fine devono fare le intercettazioni irrilevanti. Non dimentichiamo - ha detto l'ex pm - che non è stato intercettato il presidente della Repubblica, ma un privato cittadino che anzichè chiamare la moglie o l'avvocato chiamava il capo dello Stato".

"Così facendo - ha spiegato ancora Di Pietro - Napolitano mette in difficoltà non solo la procura di Palermo, ma anche la Corte Costituzionale. Napolitano ha commesso una violazione delle sue guarentigie di capo dello Stato in un momento delicatissimo. Elimini subito questa difficoltà".
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