Al World Editors Forum (http://www.worldnewspaperweek.org/event/18th-world-editors-forum ) ha fatto sensazione tra i partecipanti stranieri il tema dell’ analfabetismo funzionale italiano, in quel caso collegato alla scarsa circolazione dei giornali.
Si tratta di un dato registrato nello Human Development Report,dell’Onu (
hdrstats.undp.org/en/indicators/109.html ) e segnala una situazione italiana particolarmente grave: in questo rapporto, del 2009, gli italiani che hanno problemi di analfabetismo funzionale arrivano al 47% della popolazione. C’è chi fornisce percentuali ancora maggiori quando si riferisce all’analfabetismo di ritorno (il 70%). Sono due fenomeni leggermente diversi ma non sottilizziamo. Si tratta comunque di percentuali da panico democratico.
Tradotto: sanno leggere ma non capiscono. Molti di voi, in genere coinvolti in sfiancanti “conversazioni” sui social forum, assentite. Quante volte vi è capitato di constatare che i commenti a una vostra riflessione tutto facevano tranne che riferirsi a quella? Quanto piuttosto riportavano frasi o opinioni “civetta”, come stanche cantilene trite e maciullate nella pubblica opinione? La difficoltà di rimanere in topic, cioè di riflettere su quel che s’è letto e di rispondere o ribadire con pensieri in linea col testo e non con un proprio flusso di pensieri astratto ma che non si riferisce all’argomento, è frequentissima. E quanti di voi hanno verificato un fenomeno inquietante e crescente? Il fastidio e l’aggressività che si riscontra quando qualcuno si azzarda a far notare errori grammaticali, ortografici o di ragionamento? Se è sempre più difficile imbattersi nell’ autonomia di giudizio, nella maturità di argomentazione, la causa ha un nome: l’ analfabetismo funzionale.
Un punto di partenza per questo tema è la definizione offerta dall’ Ocse ( il consorzio di associazioni internazionali che si occupa tra l’altro di valutare i livelli cognitivi nelle varie età dei singoli paesi in funzione della necessità di “avere competenze nella comprensione dei testi scritti e nelle operazioni di calcolo per partecipare in modo attivo alla vita democratica di un paese e al suo sviluppo economico”) di tale forma “evoluta” dell’analfabetismo e cioè: “A person is functionally illiterate who cannot engage in all those activities in which literacy is required for effective functioning of his group and community and also for enabling him to continue to use reading, writing and calculation for his own and the community’s development.”
Non ci sorprendiamo più di tanto, ma ci allarmiamo, sono dati che erano già stati oggetto di uno studio di Tullio De Mauro un paio di anni fa e dovrebbero mettere in guardia chi governa per il bene collettivo, non certo fargli affermare che “poco male, coi libri non si mangia”(Tremonti).
In realtà, chi avventatamente ha dichiarato quella corbelleria, sa perfettamente che lo sviluppo economico e civile di un paese dipende dall’istruzione e dai livelli cognitivi dei suoi cittadini (è sempre l’OCSE a certificarlo e a mettere in relazione i due dati), ma sa anche che quasi la totalità del suo elettorato proviene da quella fascia di 50% di analfabetismo funzionale e dunque a quella deve rapportarsi. Persone che leggono in media un libro in cinque anni, se non meno.
Siamo ufficialmente un paese di ignoranti (non come giudizio, ma come dato di fatto sostanziale) e siamo in piena regressione perché i dati sono peggiorati negli ultimi due anni e peggiorano. Attenzione: stiamo parlando di adulti, dunque la scuola c’entra in parte. E’ un fenomeno che riguarda anche persone con istruzione superiore che all’indomani del conseguimento del titolo di studio hanno smesso di leggere.
Se parliamo di scuola però c’è da rilevare il peggioramento dei livelli cognitivi medi in lettura negli ultimi due anni (rilevazioni pisa e invalsi alle elementari e alle medie) che possiamo già mettere in relazione al ridimensionamento delle ore di lezione, specie di italiano, operate dai decreti Gelmini e all’aumento del rapporto alunni/docente. Come anche all’eliminazione progressiva dei moduli coi doppi maestri. Organizzazione che permetteva il recupero delle debolezze e il potenziamento delle eccellenze e che aveva portato i bambini delle nostre elementari tra i primi al mondo. Sono ancora messi bene ma, per la prima volta, si nota un flessione negativa nei livelli di lettura.
Proprio qualche giorno fa, Max Bruschi, consigliere della Gelmini, ripeteva in una trasmissione, come un disco rotto, che la qualità dell’insegnamento non proviene dalle ore di lezione e nemmeno dalle risorse investite ma solo e soltanto dalla qualità degli insegnanti. Affermazione demagogicamente efficacissima, ma impropria sul piano scientifico-didattico. Posto che in parte ciò può essere vero, decenni di studi sullo sviluppo e la valutazione dei sistemi d’istruzione e sui livelli cognitivi degli allievi da parte di chi qualche parola in più sull’ argomento potrebbe dirla con cognizione di causa e non sulla scorta di un elementare “buon senso”, hanno sancito la interdipendenza tra insegnamento e contesti strutturali di appartenenza (familiari, geografici, in relazione alle architetture di sistema scolastico e alla credibilità sociale del valore primario “istruzione” come fattore di riuscita o progresso individuale) e in misura minore di metodologia dei singoli docenti.
Quando si parla di scuola è frequente sentire affermazioni di sano buon senso comune. In realtà il “buon senso”, quando si devono curare mali estremi ha poco “senso”: servono la professionalità e la competenza degli esperti, pedagoghi, educatori, sociologi e psicologi, organizzatori di sistemi, non dei consiglieri improvvisati alla bisogna.
Nonostante ciascuno di noi sia affezionato all’ idea che è stato quell’ insegnante in particolare a farne l’uomo o la donna che è oggi, in realtà è stato molto altro, forse ache quello, nei casi migliori, ma c’è altro: il tipo di famiglia in cui si è cresciuti e il tipo di studi prescelto, oltre che la regione in cui si è nati, sommati a tanti altri fattori. E infine: la predisposizione e la volontà personale. Sì, certo, anche quell’ insegnante..Ma se in classe eravamo divisi in eccellenti, bravi, bravini e asini e l’insegnante sempre quello era, qualche altro motivo ci sarà, oltre la bravura eccezionale del docente. In realtà i fattori che oggi determinano i livelli cognitivi dei ragazzi sono ancora in maggioranza quelli di contesto, cioè dati esogeni alla scuola. Non è un bene. Perché a scuola si portano le iniquità sociali. Sarebbe bello accontentarsi solo del docente, come fattore decisivo, almeno sapremmo dove agire per eliminare i forti elementi di iniquità del sistema scolastico italian. Ma ciò oggi è vero solo in parte e per farlo diventare vero dovremmo però agire. Si potrebbe aumentare il fattore “docente” con un aumento del tempo scuola per i ragazzi e con una adeguata formazione in servizio degli insegnanti. Ma sarebbero necessari veri aggiornamenti e sperimentazioni per verificare e monitorare l’efficacia di tale assunto.
Quando ci riferiamo a noi stessi, in genere la nostra esperienza personale è sempre la maggiore fonte di “buon senso” che cerchiamo di applicare all’universo mondo. In realtà mai dobbiamo trascurare che siamo una porzione miserrima del paese, noi che leggiamo libri e quotidiani, che abbiamo un livello di studi elevato, con studi liceali (corsi di studio che garantiscono i migliori livelli cognitivi in lettura , riflessione e calcolo) e universitari siamo circa il 6% del paese. E non è nemmeno detto che le nostre competenze nella comprensione, nell’analisi e nella valutazione di un testo (comunemente definita literacy) siano comunque eccellenti. Per cui dimentichiamoci di noi. Il paese è altro: il 50% è affetto da analfabetismo funzionale. Si direbbe inoltre che la situazione generale italiana sia peggiorata tra il 2009 e il 2010 (http://en.wikipedia.org/wiki/Human_Development_Index ) . Non è il caso di fidarci del nostro buon senso per curare quello che è un cancro sociale.
Il tema generale è enorme e non è collegato solo a povertà di contesto o disagi sociali o economici degli interessati.
E’ collegato anche agli investimenti sbagliati o non effettuali dal paese nel campo dell’istruzione e del long life learning. Che non debbono essere per forza o soltanto investimenti di risorse finanziarie. Potrebbero essere anche investimenti di attenzione, di programmi di ricerca, di studio sui modelli pedagogici più adeguati, di esame rigoroso dei punti di debolezza di sistema e delle azioni conseguenti prima di prendere qualunque decisione. Se un punto di debolezza fosse la funzione docente, l’azione conseguente è l’aggiornamento e la formazione iniziale e in servizio. Se un punto di debolezza è l’organizzazione scolastica delle scuole autonome, l’azione conseguente è una diversa attenzione, formazione e aggiornamento dei dirigenti scolastici (pochissimo considerati come fattori decisivi), se un punto di debolezza è il contesto di origine, l’azione conseguente è aumentare i momenti di apprendimento non formale a scuola dei ragazzi che forniscono comunque conoscenza implicita (attività come sport, teatro, musica, cinema…), e riconsiderare il tempo scuola come la somma di apprendimenti formali, le lezioni, e non formali, le attività accessorie, se un punto di debolezza è il clima in classe (critico in certi contesti) l’azione conseguente è quella del diminuire il rapporto alunni/docente…e così via dicendo. Abbiamo sviluppato negli ultimi anni la valutazione del sistema scuola come raccolta di dati per il miglioramento del sistema. Abbiamo una fotografia sufficientemente aderente alla realtà ma le azioni conseguenti da prendere per agire su punti forza e punti di debolezza rilevati non son mai state prese in considerazione, non sono nemmeno state analizzate. I dati in genere vengono dati in pasto alla pubblica opinione in chia classificatoria e poi i sistemi politici le hanno assunte cme basi di azione demagogiche e portatrici di consenso.
Investimenti sono necessari dunque, ma con competenza, cautela e rispetto. Nel verso della considerazione del sistema d’istruzione come uno degli ambiti vitali per la crescita culturale e sociale di una collettività. Non solo in vista di uno sviluppo economico ma in vista di una maggiore consapevolezza che le competenze e i livelli cognitivi di un popolo incidono in modo specifico e fondante sulla qualità della democrazia di una nazione.
Investimenti fatti per aumentare i livelli cognitivi dunque, in modo efficace e reale, non per sanare qualche desiderata assolutamente astratto del ministro di turno.
Quello dell’analfabetismo è connesso a un problema di sistema di educazione (educazione è sinonimo di istruzione nel campo della ricerca) permanente complessiva deficitario (lo ripetiamo tutti da mattino a sera senza che nessuno abbia intenzione di prendere provvedimenti in tal senso), e di lasciare troppo spazio ad alternative massmediatiche (tv e rete su tutti) rispetto alle classiche agenzie educative, scuola e famiglia p informative (giornali e libri). Il tempo maggiore trascorso dai ragazzi non è a scuola (con le sue ore tagliate e le sue classi pollaio) o nello studio, bensì davanti ai mezzi televisivi o in rete. Così come dagli adulti. Il che non è un male in se, ma lo diventa se messo in rapporto con un insufficiente allenamento della capacità di discernimento autonomo e di valutazione critica delle informazioni acquisite.
Riferendoci nuovamente alla popolazione adulta, in un paese come il nostro che fonda molta parte della sua comunicazione non sulle relazioni interfamiliari e sociali, non sulla lettura di libri o quotidiani, come era un tempo, ma sulla televisione, generalista e di scarsa qualità, la sfida a migliorare le proprie capacità di lettura e scrittura si è notevolmente ridotta. Di conseguenza anche quelle di comprensione come di riflessione. Con conseguenze immaginabili nella sfera delle azioni: incapacità di raziocinio di tipo riflessivo, emotività diffusa, sia individuale che sociale, frammentazione del corpo sociale.
Ripeto ancora una volta che l’analfabetismo funzionale non è l’analfabetismo tout court: riguarda le capacità di lettura e di comprensione e valutazione di un testo scritto complesso, non il fatto di avere o non avere frequentato una scuola. Riguarda le conseguenti capacità di riflessione, di consapevolezza degli eventi e di porre collegamenti conseguenziali e valutazioni fattive tra di essi.
Al di là del giudizio e delle considerazioni su chi possa avere vantaggi da un paese per metà privo di strumenti valutativi personali e autonomi, il dato dovrebbe creare sconcerto, ma anche far riflettere.
Possiamo aggiungere qualche altro dato: l’elettorato di centro destra è statisticamente maggiore tra chi ha titoli di studio inferiori. Non legge quotidiani ne’ libri. Se anche se li leggesse, non avrebbe gli strumenti cognitivi per comprenderli. Chi è affetto da analfabetismo funzionale è più “ammaestrabile” da demagoghi e populisti, bastano facili slogan. Pericolosi non nel contenuto – di buon senso e forse condivisibili in se- ma nell’uso facilmente manipolatorio che se ne fa. In sostanza ad essere messi in crisi sono i binari della democrazia adulta. Cioè la fiducia che a cambiare e a governare un paese debbano essere i cittadini consapevoli attraverso i mandati istituzionali di cui comprendono essenza e funzione. La crisi della rappresentanza democratica può dipendere da un lato da un incancrenirsi delle patologie e dei difetti delle modalità partitiche, dall’altra dalla non consapevolezza del potere e delle funzioni dell’agire democratico determinata da una scarsa literacy dell’elettorato.
Di fronte a tutto ciò si può agire in più modi: o continuando a prendere in giro il paese con battute indegne, sui libri che si mangiano o si buttano, e noi lì, a battere le mani, per sanare la nostra coscienza di ex somari, o di poco istruiti, o di “nemici di ogni spreco”, o iniziando “a fin di bene” a produrre linguaggi semplici, accattivanti e di buon senso (ben diverso dal “senso”..spesso il “senso” sfugge), ma pericolosi perché manipolatori, oppure iniziando a pensare che senza un vero investimento nell’architettura di sistema della scuola pubblica, nelle metodologie e nel posizionamento adeguato delle risorse, in modo serio ed efficace e senza ideologismi, come anche senza alcuna concessione ai mali antichi, tali ritardi culturali , che poi diventano sociali , civili e antropologici, sono destinati inevitabilmente a crescere.
Una piccola notazione pratica, forse off topic, ai colleghi docenti: un grande pedagogo contemporaneo afferma che il fine ultimo del nostro pensiero oggi, la vera missione da compiere in classe è quella di stimolare domande. La condivido: la nostra resistenza attiva al servizio della democrazia è seminare dubbi tra gli allievi e far amare la complessità. Non di dare risposte. Stimolare domande per accrescere curiosità e senso critico. Svegliamoci la mattina, entriamo in classe e poniamoci quell’obiettivo.