Re:
Bobby realdeal, 12/16/2011 9:31 PM:
Ora ci devi spiegare, citando ovviamente non meno di otto filosofi, quale processo inconscio ti ha spinto a fare un doppio post.
Challenge Accepted
Se una persona muove un dito per cliccare, può aver effettivamente mosso un dito, o non averlo mosso, causando un movimento passivo mentre faceva qualcos'altro. E se ha effettivamente mosso il dito, può averlo fatto intenzionalmente, come può non averlo fatto intenzionalmente. Oltre al muoversi, magari voleva scacciare un insetto dalla mano, o sgranchirsi il dito dopo ore al pc.
Dovremmo pensare alle conseguenze di qualcosa di fisico in termini di azioni, distinte ma generate dall'atto del muovere il dito ? Il fatto che io abbia cliccato, è un azione, un impulso diverso, dal movimento del dito in sé ?
Donald Davidson sostiene che un azione è tale quando c'è una qualche forma di intenzionalità nell'agire, almeno sotto qualche punto di vista. Tuttavia, non è una definizione che permette molto gioco, come fa notare Andrei Buckareff, è difficile spiegare il collegamento fra i due concetti. In primis, già il concetto di "Intenzione" è qualcosa di molto difficile da definire; in secondo luogo, la nozione secondo cui un comportamento umano può essere intenzionale in un caso e in un'altro no, piuttosto che apparire intenzionale quando non lo è, e difficile da gestire
Una persona può, ad esempio, inciampare. Una persona si muoversi per inciampare: il movimento intenzionale, e in tal caso permane la condizione di intenzionalità prevista da Davidson; tuttavia, se una persona inciampa il cadere che ne consegue, può essere al massimo una conseguenza prevedibile, ma del tutto involontaria. Eppure, sia l'inciampare che la sua causa sono necessarie per per rendere vera l'affermazione secondo cui la persona è inciampata.
Questo crea un ulteriore problema: sono le ragioni per cui la persona agisce la causa dell'azione ? E' un grosso problema, filosofico e teleologico.
Come fa notare Harry Frankfurt, quando un ragno si muove su un tavolo, lui controlla direttamente le sue gambe, con il fine ultimo di spostarsi da un punto all'altro. Questo tipo di movimenti hanno una finalità teleologica, come il mio click quando ho intenzione di mandare un post. Eppure, se uno tossisce, o starnutisce, è un qualcosa che una persona ha fatto, pur rimanendo totalmente passiva.
Diventa quindi utile distinguere l'azione intenzionale da quella involontaria, ma anche l'azione teleologica dagli atti autonomi a autocoscienti di un agente umano attivo.
Elizabeth Anscombe ha per questo stabilito un criterio alquanto utile: " Conoscenza senza osservazione " per stabilire l'intenzionalità conscia di un'azione. Un agente sa senza osservazione che genere di azione sta compiendo, e quale finalità essa abbia. Tuttavia, se vogliamo accettare questo criterio bisogna sostenere il fatto che ogni forma di propriocezione dell'agente non contano come tipo di osservazione "interna", il che è altamente opinabile.
In maniera analoga, David Velleman descrive questo tipo di conoscenza come "spontanea", cioè una conoscenza che l'agente ha tratto senza derivarla da evidenze che la garantiscono. Quest'altro criterio sembra intuitivamente più soddisfacente, perché funziona ad esempio nel caso di un capogiro, in cui all'agente sembra che il mondo stia girando su se stesso, per quanto il suo corpo non si stia affatto muovendo. Inoltre, permette di gestire l'intenzionalità più efficacemente: l'agente sa che vuole raggiungere il suo scopo, di conseguenza spontaneamente causa i movimenti teleologici necessari per raggiungere il dato obiettivo.
Tuttavia, sebbene sia possibile che la conoscenza spontanea dei comportamenti per raggiungere un obiettivo sia una prova dell'intenzionalità, può essere benissimo vero il contrario: può darsi che lui sappia solo ed esclusivamente la sensazione della volonta nell'immediato, nell'adesso, e il "sapere" che è sull'orlo di fare questo o quello per arrivare al suo obiettivo sia solo un'inferenza.
J.L. Austin già negli anni 60 faceva notare il problema linguistico che si cela dietro la questione: la frase " MM ha mosso il dito " è ambigua tra le opzioni:
MM ha causato il movimento del suo dito
o
MM ha compiuto un movimento col suo dito.
Quindi nessuna distinzione tra il movimento e l'atto del muoversi può risolvere il problema precedente, dell'intenzionalità e della volontà di agire, anche se Ginet credeva che il fatto che MM muovesse il suo dito fosse causato da l'attiva volontà di MM di provare a muovere il dito, e che provare a fare una cosa è di per se un'azione efficace. Ma, tuttavia, l'atto del muoversi è distinto dall'atto del voler muoversi, e dall'atto del provare a muoversi: allora in tal caso il movimento del dito non può essere causato in maniera prossimale dal provare a muoversi, perché si tratta di atti distinti. Un paralitico può avere volontà di movimento, può provare a muoversi: ma il suo atto può diventare tale solo se effettivamente il movimento avviene.
In un esempio popolarizzato da Davidson, qualcuno entra in una stanza con un ladro, e che lo nota quando l'agente accende la luce, cosa che fa pigiando un interruttore.
Secondo la sua tesi: pigiare l'interruttore = accendere la luce = illuminare la stanza = farsi notare dal ladro. E questo nonostante solo i primi due passi siano intenzionali.
Nessuno nega che ci sia un processo interiore complesso che viene iniziato dal pigiare l'interruttore dell'agente e termina con l'accensione della luce come risultato. Questo processo include, ma tuttavia non si riduce, all'atto che lo inizia (pigio) o all'evento che si verifica (fiat lux).
Hornsby si rifà a questa posizione sostenendo che " MM ha mosso il dito " = " MM ha provato intenzionalmente a muovere il dito ", sostenendo che applicando ad una simile situazione la tesi di Davidson-Anscombe, si può sostenere che l'atto di muovere il dito è equivalente
all'atto di provare a muovere il dito. Il movimento non è equivalente al tentare di muovere ma è concomitante e indistinguibile
dall'atto del tentare di muovere.
In questo modo, citando Hornsby, si spiega come l'usare il termine "atto di tentare" è un modo per descrivere il comportamento di un'agente rivolto ad un fine senza necessariamente esprimerci sulla sua intenzionalità.
Possiamo sostanzialmente dire che il ragno si muove senza impegnarci nel sostenere che sia puramente un'animale macchina o, sul lato opposto dello spettro, che sia perfettamente cosciente dell'intenzione di quello che fa.
Spiegazioni di intenzione per l'agire di un particolare agente sono, sostanzialmente, ragioni causali. Tuttavia, alcuni, tra cui Charles Taylor, nel suo "Explanation of Action", sostengono che il tentare di spiegare l'agire in termini di causazione è un atteggiamento intrinsecamente erroneo, riferendosi a misteriose "cause paraconsistenti non causali". Queste sono stronzate, sorte più per piegarsi alle tendenze neo-wittgensteiniane deconstruttiviste postmoderne merdose di metà secolo scorso che per effettiva validità della catena di ragionamento.
Abraham Roth ha efficacemente sostenuto che un'azione può avere contemporaneamente spiegazioni teleologiche irriducibili, e cause efficiente primarie come motivazioni intenzionali. Questo genere di spiegazione è tipico e bellissimo in biologia, quando un fenomeno funziona attraverso un feedback autogenerato.
Quando diciamo che organismo ha fatto X perché aveva bisogno di Y, possiamo benissimo star dicendo che l'obbiettivo di Xare era fare Y e CONTEMPORANEAMENTE che è stata la necessità di Y ad attivare X.
L'attivazione di particolari geni produce insulina: l'obbiettivo dell'attivazione dei geni è fare l'insulina, e la necessità di insulina ha attivato i geni. Si può anche fare esempi non meccanicistici, usando comportamenti animali in reazioni a necessita omeostatiche, ma adesso non mi viene in mente nulla, quindi bon.
Una spiegazione in termini di ragioni può essere una spiegazione di intenzionalità.
In questo caso, tuttavia, il doppio post è stato semplicemente causato dal fatto che i server di FFZ fanno cagare.