Stralci da un interessante articolo a tal proposito, magari un po' tragico ma sicuramente esauriente:
Sotto la dominazione britannica, l’India conobbe carestie ricorrenti ogni decina d’anni: 1876-79, 1889-91, 1899-1902. La regolarità coincide in parte con l’oscillazione del Nino, la corrente del Sud-Pacifico che porta periodicamente monsoni scarsi in Asia meridionale. Ma coincide anche col fatto che nell’arido altopiano del Deccan, tra il 1875 e il 1900, la superficie coltivata a cotone raddoppiò, a scapito di quella a granaglie per il consumo locale: il cotone era una «cash crop», raccolto vendibile per denaro sui mercati solvibili, ossia europei.
Nel 1876-79, i britannici esportarono 300 mila tonnellate di cereali dall’India verso l’Europa, la ferrovia essendo il nuovo mezzo di trasporto che consentì questo eccezionale successo. I vagoni traversavano zone dove esseri scheletrici, accovacciati lungo i binari, morivano di fame a decine di migliaia. Organizzazioni caritative inglesi cercarono di portare in quelle zone qualche aiuto alimentare urgente; ma i grossisti di cereali fecero pressioni sul Parlamento britannico, e «ottennero» una legge «anti-charities»: essa vietava donazioni che potevano interferire coi prezzi dei «grani», riducendo i profitti (1).
«Nell’età d’oro del capitalismo liberale, migliaia furono uccisi dall’applicazione teologica dei sacri principii di Adam Smith, Bentham e Stuart Mills», ha scritto Mike Davis, sociologo e storico americano, che riporta questo fatto nel suo saggio capitale, «Late Victorian Holocausts» («Olocausti dell’età vittoriana»).
Mike Davis dovrebbe essere più citato ora che siccità e irregolarità climatiche promettono nuove scarsità e rincari dei primi generi alimentari, ossia carestie per vaste zone del mondo che dipendono dalle importazioni per mangiare. Già dal 2008, cattivi raccolti e i rincari sono stati il preludio delle «primavere» arabe, rivolte della gente che non riusciva più a sfamare le famiglie, e disordini e morti in Africa. La Barclays Capital, sezione «materie prime» della Barclays Bank inglese, ha reso noto a clienti e investitori d’aver profittato dai rincari mondiali degli alimenti per 189 milioni di sterline l’anno in media; non male per una filiale che conta solo 350 dipendenti. La banca britannica s’è attratta le critiche delle anime belle, «Trae profitti dalla fame». Ma è solo la terza delle grandi speculatrici sui grani e cibo, dopo (indovinato?) Goldman Sachs e Morgan Stanley.
La speculazione di questi giganti, entrati in forze sui mercati dei «future», ha aggravato i rincari. I «futures» sono i più antichi «prodotti finanziari derivati», applicati originariamente alle derrate: gli acquirenti si impegnavano a comprare dal produttore (di cereali, caffè, carne di maiale...) un quantitativo del loro prodotto ad un prezzo stabilito in anticipo. In tal modo il produttore vendeva sì il suo grano in erba, ma si garantiva contro fluttuazioni e ribassi eccessivi: aveva un reddito certo.
In USA, i mercati dei futures («a termine») nacquero a Chicago, Kansas City e Minneapolis dopo la Guerra di Secessione proprio per proteggere gli agricoltori dalle fluttuazioni di prezzi dovute agli incerti della meteorologia. È questa forma di assicurazione che ha consentito ai contadini americani di investire, meccanizzare, ampliare i terreni a coltivo, creare il surplus granario che l’America ha spesso usato nella guerra fredda come arma politica.
Ora non più. Dopo lo scoppio della bolla finanziaria internet (anno 2000) e ancor più dopo la bolla dei sub-prime nel 2007, la pura speculazione finanziaria ha preso ad esercitare i suoi appetiti sul mercato, relativamente risparmiato prima, del cibo. I colossi enormememte dotati di capitali roventi, spesso «a leva» o pseudocapitali, si sono gettati a negoziare futures su cereali, caffè, carne: senza alcuna intenzione di ritirare la merce a termine, ma solo passandosi di mano i contratti, che avrebbero stracciato prima del termine, creando una domanda fittizia. Prima del 2000, i contratti di questo genere sulle materie prime erano il 20% dei contratti totali; nel 2006, già erano l’80%. I compratori-utilizzatori (fra cui si contano giganti come Nestlé e Kraft che effettivamente usano le derrate) sono stati emarginati. Previdente, già nel 1991 Goldman Sachs, sotto la presidenza di Gary Cohn (ovviamente J) e fantasista dell’ingegneria finanziaria, aveva elaborato un «prodotto d’investimento» derivato comprendente 24 materie prime, dal petrolio ai cereali, dai metalli preziosi al cacao, collegati da formule matematiche: il celebre Goldman Sachs Commodit y Index, in sigla GSCI (come ha insegnato George Orwell in 1984, le sigle servono ai regimi totalitari per nascondere la realtà sottostante), subito imitato da ogni altra banca d’affari. Tra il 2003 e il 2008, secondo una relazione del Senato USA, la speculazione sulle materie prime per mezzo di questi fondi indicizzati è cresciuta del 1.900%. I successivi «quantitavive easing» (stampa di dollari) operati dal capo delle FED, Ben Shlomo Bernanke, hanno consentito di riversare immani flussi di liquidità in questi mercati. (www.hsgac.senate.gov)
La deregulation dei mercati, pretesa ed ottenuta in nome della purezza ideologica liberista, ha fatto il resto. Fino al 1989, un accordo internazionale, International Agreement on Coffee, aveva mantenuto il corso del caffè a 1,4-1-2 dollari la libbra, ciò che assicurava un reddito stabile a 25 milioni di piccoli produttori di caffè che lavoravano da uno a 5 ettari. Abolito l’International Agreement, il caffè è passato a 0,5 dollari a libbra, facendo sparire i piccoli coltivatori in Brasile come in Etiopia e in Vietnam. Le multinazionali che controllano il settore (da Nestlé a Kraft e Procter & Gamble) hanno accresciuto i loro profitti tra il 17% e il 26%.
Ora la Banca Mondiale ha segnalato, a fine agosto, che il prezzo del mais è raddoppiato in due anni fino a 300 dollari a tonnellata, quello della soia è raddoppoato in cinque anni, a 600 dollari. Ciò comporterà un rincaro del 10% della spesa alimentare di base delle famiglie in Medio Oriente e in Africa. La crisi mondiale, che si ripercuote in questa parte del mondo in termini di disoccupazione giovanile galoppante e salari troppo bassi, preconizza forse nuove carestie.
La soluzione sarebbe semplice: proibire per legge la partecipazione a questi mercati ad attori che non dispongano di navi, silos e magazzini per consegnare o immagazzinare la merce. Ma nessun potere politico ormai ha la minima volontà nè capacità di mettere un freno alla finanza divorante. Perso il «nemico» sovietico come contraltare, il sistema capitalista si vuol applicare in tutto il suo inflessibile rigore ideologico, a livello globale. Come ha scritto con sarcasmo Paolo Savona, «ha ripreso i vecchi vizi di considerare il costo del lavoro e i contributi sociali un esproprio dei suoi ‘giusti’ profitti». E l’esempio raccontato da Davis nell’India nel 1879 mostra che non si ferma davanti ad alcuna sofferenza umana.
I vagoni che trasportavano all’export centinaia di migliaia di tonnellate di grani attraverso campi dove la gente moriva di fame, e dove furono vietate attività caritative che potevano turbare i prezzi, sono i gemelli dei treni che attraversavano l’Ucraina messa alla fame dal socialismo reale di Stalin e Kaganovich nel 1932, quando ai ferrovieri venne dato l’ordine di abbassare le tende dei finestrini perchè i viaggiatori non vedessero i bambini dalle pance gonfie e i cadaveri scheletrici che si affollavano attorno alla strada ferrata, sperando che qualcuno gettasse loro un pezzo di pane: 7 milioni furono i morti per una carestia del tutto artificiale.
L’imperio dell’ideologia porta ai medesimi esiti inumani. A che serve cercare esempi lontani? In USA, l’accordo firmato da Obama per il salvataggio di Chrysler e General Motors ha decretato un dimezzamento dei salari per tutti i nuovi assunti; da allora è stato una riduzione delle paghe in tutti i settori.
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Almeno nel ‘900 il capitalismo, tra iniquità e crisi ricorrenti, offrì prospettive reali di crescita, benessere e sicurezza per masse sempre maggiori. Oggi, «si deve riconoscere che non si vede alcuna opzione per superare l’attuale crisi economica globale»: lo ha detto un commentatore d’eccezione, Vladimir Putin, parlando agli ambasciatori russi (dunque non per orecchie esterne) riuniti a Mosca il 9 luglio scorso.
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Non basta: Putin ha avvertito i suoi diplomatici che alla crisi attuale, che dura dal 2008, sta per succedere una seconda ondata: per la precisione «una seconda crisi finanziaria mondiale».
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Quali? Fra l’altro, «negli ultimi 5 anni il presidente Vladimir Putin ha investito aggressivamente in oro, spendendo a questo scopo circa 500 milioni di dollari al mese, per diversificare gli attivi nazionali al di fuori di dollari ed euro». Attualmente, la Russia detiene il 9% delle sue riserve in oro (...). Ha più che raddoppiato le sue riserve auree. (
www.shtfplan.com/precious-metals/double-down-vladimirs-putin-it-into-gold-in-anticipation-of-global-upheaval_... )
È come se Putin si stesse preparando ad un mondo dove dollaro, euro, yen e qualunque altro attivo di carta (o elettronico) non esisterà più. La Repubblica Popolare Cinese ha fatto lo stesso: nei soli ultimi sette mesi ha accumulato altre 500 tonnellate di oro, che è pari all’intera riserva aurea della Banca Centrale Europea. Il fatto è che anche George Soros, in agosto ha smobilitato praticamente tutti i suoi investimenti in entità finanziarie, comprando oltre 130 milioni di dollari in oro. E ha anche spiegato perché: «Stiamo entrando in uno dei periodi più pericolosi della storia moderna», ha detto, preconizzando violenti disordini civili in America e brutali reazioni del potere per stroncarli. (
www.shtfplan.com/headline-news/report-soros-unloads-all-investments-in-major-financial-stocks-invests-over-100-million-in-gold_... )
Indizio fors’anche più allarmante, altri miliardari come Warren Buffett e John Paulson, si sono sbarazzati di interi pacchetti azionari, specie di imprese come Johnson & Johnson e altri marchi meno in vista come «Sara Lee» (beni di consumo) e «Family Dollar» (dettaglianti), come si aspettassero un crollo del potere d’acquisto del consumatore americano a reddito modesto. (
www.moneynews.com/Outbrain/billionaires-dump-economist-stock/2012/08/29/id/450265?PROMO_COD... )
1) La cosa si è ripetuta più volte. Nella provincia del Berar indiano (oggi non più esistente, aveva come centro Hiderabad) «durante la carestia del 1899-1900, quando 143 mila abitanti del Berar morirono direttamente di fame, la provincia esportò non solo migliaia di balle di cotone ma, incredibile, 747 mila «bushels di grano» (Mike Davis, «The Origins of the Third World», 2000, pagina 66).