Delocalizzazione, perdita delle competenze e protezionismo

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AtomBomb
00giovedì 9 febbraio 2012 22:49
La Apple delocalizza ancor di più, e finalmente il New York Times si inquieta di ciò che la globalizzazione ha fatto agli esseri umani americani. Praticamente tutti i 70 milioni di iPhone e i 30 milioni di iPad sono fabbricati fuori dagli USA. Apple ha ancora 43 mila dipendenti negli Stati Uniti; ma paga altri 700 mila lavoratori non americani che dipendono da sub-fornitori, contractors e progettisti.

Ora, altri posti di lavoro nell’industria più famosa del mondo stanno per emigrare, e non tornare più
, piange il New York Times. Dalla sua inchiesta emergono alcune realtà sottaciute sui veri rapporti fra capitale e lavoro nel capitalismo terminale.

Apprendiamo dall’inchiesta del massimo giornale americano quanto costa fabbricare un computer che viene messo sul mercato a 1.500 dollari: 22 dollari a Elk Grove (cittadina della Silycon Valley californiana), ma 6 dollari a Singapore, e 4,85 a Taiwan. Su un prezzo finale, ripeto, di 1.500 dollari, il costo del lavoro sembra risibile comunque. Eppure la differenza basta, secondo il dogma liberista, a giustificare la delocalizzazione.

Ma ciò che allarma il New York Times è la scoperta che, ormai, non sono nemmeno più le paghe basse il vero motivo delle ultime delocalizzazioni. Sono, invece, la rapidità ed alta qualità dei lavoratori cinesi impiegati nel montaggio, la vasta e integrata rete di industrie di sub-fornitura, la sua velocità ed adattamento nel rispondere alle richieste di Apple.

Il giornale cita un esempio che mette il freddo alla schiena: poche settimane prima dal lancio sul mercato dell’iPhone, Steve Jobs si accorge che lo schermo in plastica si riga facilmente, e pretende immediatamente, strepitando, uno schermo in vetro. Vi risparmio i dettagli sulla difficoltà tecnica di tagliare rettangolini di vetro temprato ad angoli smussati, problema che una ditta cinese si offre di risolvere. Si tratta di riprogettare la parte all’ultimo minuto, mettere in piedi una linea di montaggio nuova.

Soluzione: altra telefonata in Cina. A mezzanotte ora locale. Là, racconta il New York Times,

«un caposquadra sveglia 8 mila lavoratori che giacciono nei dormitori dell’azienda, a ciascuno di loro viene dato un tè e un biscotto, vengono avviati alle stazioni di lavoro entro mezz’ora e cominciano un turno di lavoro di 12 ore per applicare i vetri nelle cornicette smussate. Entro 96 ore, la ditta stava producendo 10 mila iPhones al giorno».

«L’intera catena di fornitura oggi è in Cina», si esalta un dirigente di Apple: «Hai bisogno di mille guarnizioni in gomma? La fa la ditta a fianco. Vuoi un milione di viti? È la fabbrica nella strada accanto. Vuoi le viti fatte in modo un po’ diverso? Ci vogliono tre ore». E tutto benissimo, con grande qualità e flessibilità, lavorando tanto e con tanti uomini quando c’è bisogno, e poco con pochi uomini quando non occorre.

Conclude un altro dirigente Apple (tutti anonimi, per prudenza, ci vuol niente a farsi licenziare in tronco):

«Non ci dovete criticare per il fatto che usiamo lavoratori cinesi; gli Stati Uniti hanno smesso di produrre gente con le qualità richieste».


E questo, finalmente, allarma il grande giornale americano: la improvvisa consapevolezza che la delocalizzazione – sottoprodotto inevitabile della globalizzazione – ha provocato una perdita di competenze, di know-how e di tessuto industriale nella nazione, che sta diventando irreversibile.

Non ci saranno mai più in USA i lavoratori «ideali» per il capitalismo terminale – ossia alloggiati a migliaia nei dormitori aziendali, svegliabili nel cuore della notte per cominciare turni di 12 ore, nutriti con tè e un biscotto – perchè i lavoratori americani, pur disposti a quella nuova vita, non sono più capaci di fare il lavoro.


Lavoratori cinesi dormono durante turni di assemblaggio di mouse Microsoft

Ovviamente, il giornale di New York non arriva a dire esplicitamente che quelle capacità dei lavoratori cinesi ed asiatici, e il tessuto di distretti industriali integrati che risponde alle «esigenze della casa», non sono eventi naturali: sono stati «regalati» dall’ex Primo Mondo alla Cina e all’Asia, a forza di globalizzazione. È la conseguenza di aver ammesso la Cina nel «mercato globale» nonostante le sue violazioni delle condizioni dettate dal WTO per gli (altri) attori del mercato globale: libera fluttuazione della moneta nazionale, condizioni «decenti» di lavoro, adesione ai Protocolli di Kyoto sull’inquinamento, assenza di dazi doganali.

A queste condizioni, beninteso, solo gli occidentali obbediscono. La Cina invece può infischiarsene delle norme sull’inquinamento, alloggiare i suoi schiavi nei dormitori, violare i minimi sindacali, e distorcere il valore della sua moneta nazionale tenendolo artificialmente basso con interventi monetari di Stato, senza incorrere nelle multe miliardarie del WTO.

Il gioco è sleale, i dadi sono truccati. Ma metterli in discussione significa evocare una parola demoniaca, censurata, una parola tabù: protezionismo.

Nel 2009, la Francia è stata minacciata di sanzioni dalla commissaria europea alla concorrenza, Neelie Kroes, per aver condizionato il sostegno pubblico alla sua industria automobilistica a un impegno a non-delocalizzare e a proteggere i posti di lavoro interni. Nello stesso tempo Pechino ha imposto un dazio del 23% sull’importazione di aerei di medio raggio, obbligando Airbus e Boeing a fabbricare aerei in Cina, dunque ad insegnare là le competenze e creare le strutture che accetta di far sparire da questa parte del mondo; in attesa del momento in cui, inevitabilmente, la Cina avrà imparato a sostituire anche i quartier generali di progettazione. E allora ci sarà uno Steve Jobs clonato con occhi a mandorla. Perchè la perdita di know how non si ferma certo al livello dei tecnici di medio rango.

Ma non si può ripagare la Cina con la sua moneta, mettendo dazi contro le sue merci: è «protezionismo», e la dogmatica economica vigente sostiene che il protezionismo fu la causa della grande depressione 1929-39. Ora, i custodi del dogma sostengono che il protezionismo è una tentazione da respingere, perchè sarebbe la discesa nell’inferno della miseria e della rovina economica – specie dei nostri esportatori occidentali.


Ma è proprio così?

Recentemente il Mercosur (la sorta di mercato comune che unisce i Paesi sudamericani, compreso Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più Venezuela, Bolivia ed Equador come associati) ha introdotto di comune accordo misure di protezione del suo mercato interno contro le merci a basso prezzo provenienti dalla Cina e dagli USA, entrambi accusati di mantenere artificiosamente svalutata la loro moneta. Il Brasile ha imposto diritti di dogana del 30% sulle auto importate dall’estero. Vale la pena di notare che si tratta di Paesi in crescita, nei quali il protezionismo non porta alla rovina, ma al contrario ha provocato alcuni fenomeni di ri-localizzazione. L’Argentina, ponendo dazi sui Blackberry importati, ha «convinto» la ditta produttice, la multinazionale RIM, a produrre in Argentina i cellulari che vi vende.

Il cordone sanitario dei dazi non significa rinunciare alla concorrenza. Al contrario, significa ristabilire condizioni di concorrenza leali all’interno del mercato europeo, in quanto le aziende estere che intendono continuare a profittare del grande mercato europeo dovranno portare almeno parte della produzione in Europa e dovranno produrre nelle stesse condizioni della aziende europee.

Il protezionismo abbasserà il costo della vita, attraverso il rincaro dei prodotti importati e gravati da dazi doganali?

Giraud ci ricorda questa semplice verità: i prezzi bassi dei cellulari e computer asiatici sono un’illusione. Ciò che oggi in Europa guadagnamo come consumatori di merci a buon mercato, lo perdiamo come salariati, data la compressione dei salari dovuta alla globalizzazione (le nostre paghe stanno scendondo verso quelle cinesi); senza contare il gravissimo costo, mai conteggiato, della perdita di competenze e tessuto industriale irreversibile, che è niente meno che il degrado della civiltà occidentale.

Bisogna tenere in conto che alle elevazioni di dazi o tariffe europee il resto del mondo, Cina anzitutto, risponderebbe con ritorsioni, con dazi sulle nostre esportazioni. Le imprese esportatrici europee ne soffrirebbero, ci viene detto coi toni più allarmistici.
Ma è mai stato fatto il calco dei costi-benefici? Giraud è il primo a provarci, buttando giù due cifre: che valgono per la Francia, ma sostanzialmente anche per l’Italia.

Nel 2008, erano 100 mila le imprese francesi che esportavano all’estero: sembrano tante, ma sono una impresa su 20 (le altre 19 lavorano per il mercato nazionale). Non basta: la metà delle piccole-medie imprese esportatrici ha come sbocco Paesi dell’Europa, dunque non sarebbero penalizzate dal cordone sanitario dei dazi doganali. Solo un quarto esportano verso un Paese emergente.

D’altra parte, i Paesi grandi esportatori hanno bisogno di rivalorizzare la domanda interna, anzichè spingere l’export con tutti i mezzi. In Cina, il consumo delle famiglie rappresenta meno del 35% del PIL. È evidente che i successi che la Cina ha tratto dalla globalizzazione non sono distribuiti ai suoi salariati; e che i cinesi consumano troppo poco.

Prima della apertura ai mercati mondiali, la Cina aveva un’assicurazione sanitaria rudimentale, ma universale; è stata abolita per accrescere il suo «vantaggio competitivo» abbassando ulteriormente il suo costo del lavoro.
È a questa logica aberrante che l’erezione di barriere doganali europee farebbe da ostacolo.

Con i suoi 450 milioni di abitanti che hanno ancora competenze e solvibilità, l’Europa resta il mercato più vasto e ricco del mondo e potenzialmente con una buona misura di autosufficienza; ha dunque argomenti da far valere a quei Paesi che minacciassero ritorsioni commerciali, onde negoziare le condizioni a cui accetta di acquistare da fuori beni e servizi. Del resto, abbiamo già detto che la Cina pone un dazio del 23% sugli Airbus, e che il Brasile mette un dazio del 30% sulle auto importate. Il che significa che già subiamo «ritorsioni», senza aver nemmeno cominciato a praticare il protezionismo.

È ora che queste «sacre» regole siano oggetto di un vero dibattito democratico. Occorre che si acquisti coscienza della perdita di competenze e reti industriali irreversibile, che è il vero costo della globalizzazione. Bisogna dare la coscienza di massa che il dumping salariale, la «deflazione interna» e l’austerità, non è la sola via che ci resta per risanare l’economia.

Ovviamente, ci si devono aspettare forti e varie opposizioni. L’Inghilterra resterà ostile per tradizione (ha inventato il liberismo mondializzato) e per le sue relazioni transatlantiche. La Germania ha scelto la via delle esportazioni extra-europee come motore principale della sua crescita; dato il suo attuale successo, si sente come il grande beneficiario del libero-scambismo globale. Occorrerà attendere che l’illusorietà di questa soluzione sia manifesta, come inevitabilmente avverrà.

L’America che credeva di essere la grande favorita della globalizzazione, sta scoprendo amaramente – come rivela il New York Times – di aver perso la produttività dei suoi lavoratori e la loro alta qualità, a vantaggio dei cinesi che hanno imparato – nelle imprese delocalizzate dall’Occidente – il lavoro di qualità, per giunta più flessibile, più rapido, più integrato in distretti industriali nuovi di zecca, e a basso costo. L’illusione tedesca è, a termine, insostenibile, verrà il giorno in cui scoprirà di non essere competitiva di fronte alle competenze acquisite (anzi, che abbiamo regalato) ai giganti demografici asiatici. Allora si troverà davanti ad una dolorosa revisione di strategia, e di ideologia.

Quando? «Una revisione profonda del concetto stesso di concorrenza», conclude tristemente Giraud, «non è oggi alla portata intellettuale della Commissione Europea, nè della Organizzazione Mondiale del Commercio».


Maurizio Blondet

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Se vi interessa, qui l'inchiesta del New York Times nyti.ms/A2qBQA
Megablast
00venerdì 10 febbraio 2012 08:47
Il protezionismo è la prima arma per i paesi industrializzati, soprattutto per evitare che gli emergenti diventino troppo forti da poterli poi fermare.
The REAL Capt.Spaulding
00venerdì 10 febbraio 2012 09:05
il protezionismo è quello che tremonti avrebbe sempre voluto fare
(Voices 93)
00venerdì 10 febbraio 2012 09:39
Alez_89
00venerdì 10 febbraio 2012 11:23
Re:
AtomBomb, 09/02/2012 22.49:

L
«un caposquadra sveglia 8 mila lavoratori che giacciono nei dormitori dell’azienda, a ciascuno di loro viene dato un tè e un biscotto, vengono avviati alle stazioni di lavoro entro mezz’ora e cominciano un turno di lavoro di 12 ore per applicare i vetri nelle cornicette smussate. Entro 96 ore, la ditta stava producendo 10 mila iPhones al giorno».

«L’intera catena di fornitura oggi è in Cina», si esalta un dirigente di Apple: «Hai bisogno di mille guarnizioni in gomma? La fa la ditta a fianco. Vuoi un milione di viti? È la fabbrica nella strada accanto. Vuoi le viti fatte in modo un po’ diverso? Ci vogliono tre ore». E tutto benissimo, con grande qualità e flessibilità, lavorando tanto e con tanti uomini quando c’è bisogno, e poco con pochi uomini quando non occorre.



Noto la facilità di competere con mercati del genere,si è già bruciati in partenza...

AtomBomb, 09/02/2012 22.49:

L
Il protezionismo abbasserà il costo della vita, attraverso il rincaro dei prodotti importati e gravati da dazi doganali?

Giraud ci ricorda questa semplice verità: i prezzi bassi dei cellulari e computer asiatici sono un’illusione. Ciò che oggi in Europa guadagnamo come consumatori di merci a buon mercato, lo perdiamo come salariati, data la compressione dei salari dovuta alla globalizzazione (le nostre paghe stanno scendondo verso quelle cinesi); senza contare il gravissimo costo, mai conteggiato, della perdita di competenze e tessuto industriale irreversibile, che è niente meno che il degrado della civiltà occidentale.


Alla faccia del benessere, altro che megasconti o altro, mega povertà è in arrivo...

AtomBomb, 09/02/2012 22.49:

L
L’America che credeva di essere la grande favorita della globalizzazione, sta scoprendo amaramente – come rivela il New York Times – di aver perso la produttività dei suoi lavoratori e la loro alta qualità, a vantaggio dei cinesi che hanno imparato – nelle imprese delocalizzate dall’Occidente – il lavoro di qualità, per giunta più flessibile, più rapido, più integrato in distretti industriali nuovi di zecca, e a basso costo. L’illusione tedesca è, a termine, insostenibile, verrà il giorno in cui scoprirà di non essere competitiva di fronte alle competenze acquisite (anzi, che abbiamo regalato) ai giganti demografici asiatici. Allora si troverà davanti ad una dolorosa revisione di strategia, e di ideologia.




Alla fine il Boomerang è tornato, e gli americani l'hanno preso sui denti, e probabilmente lo prenderanno pure i tedeschi se si continua con questa strada

L'articolo è molto interessante, rischierò di dire una cazzata, sbaglio o ultimamente gli americani stanno facendo un'autorevisione delle loro azioni degli ultimi decenni?
Ovvero noto molti articoli dagli Stati Uniti, in cui stanno ammettendo vari sbagli, ovvio che in una situazione del genere è inevitabile parlarne, però mi sembra ci sia un leggero cambio di linea di pensiero (inevitabilmente avranno capito che questo sistema ha fallito)
AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 11:33
Re:
Megablast, 2/10/2012 8:47 AM:

Il protezionismo è la prima arma per i paesi industrializzati, soprattutto per evitare che gli emergenti diventino troppo forti da poterli poi fermare.


Secondo me siamo ancora in tempo, alla fine vivono ancora dei lavori che portiamo noi, di autoctono hanno ancora poco, sono già al livello di eccellenze che impiegano poche persone, togliamogli i lavori, li facciamo tornare indietro, lasciamo che con gli arabi se la vedano gli ebrei, e dichiariamo guerra a Cina e India. [SM=x2584265]

AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 11:40
Re: Re:
Alez_89, 2/10/2012 11:23 AM:



Alla fine il Boomerang è tornato, e gli americani l'hanno preso sui denti, e probabilmente lo prenderanno pure i tedeschi se si continua con questa strada

L'articolo è molto interessante, rischierò di dire una cazzata, sbaglio o ultimamente gli americani stanno facendo un'autorevisione delle loro azioni degli ultimi decenni?
Ovvero noto molti articoli dagli Stati Uniti, in cui stanno ammettendo vari sbagli, ovvio che in una situazione del genere è inevitabile parlarne, però mi sembra ci sia un leggero cambio di linea di pensiero (inevitabilmente avranno capito che questo sistema ha fallito)


Si stanno rendendo conto di aver creato un mostro che li tiene per le palle, di aver perso quasi 30 milioni di posti di lavoro che valgono miliardi di dollari, posti che non sono stati ricreati.

La cosa che pare preoccuparli di più è che hanno perso le competenze, le capacità a fare le cose e che i loro competitor potrebbero rubargliele, pensare solo che quando era uscito il primo iPad ce n'era una copia cinese che funzionava anche meglio.

Senza contare questo articolo sulle materie prime e le condizioni imposte per il loro sfruttamento

www.corriere.it/economia/10_agosto_18/pechino-blinda-il-controllo-sui-minerali-preziosi_cfb1fce4-aa93-11df-a60a-00144f02aa...

Megablast
00venerdì 10 febbraio 2012 12:04
Re: Re:
AtomBomb, 2/10/2012 11:33 AM:


Secondo me siamo ancora in tempo, alla fine vivono ancora dei lavori che portiamo noi, di autoctono hanno ancora poco, sono già al livello di eccellenze che impiegano poche persone, togliamogli i lavori, li facciamo tornare indietro, lasciamo che con gli arabi se la vedano gli ebrei, e dichiariamo guerra a Cina e India. [SM=x2584265]





Ma infatti gli emergenti non valgono un cazzo, abbiamo ancora una decina d'anni di tempo per fermarli.
AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 12:35
Re: Re: Re:
Megablast, 2/10/2012 12:04 PM:




Ma infatti gli emergenti non valgono un cazzo, abbiamo ancora una decina d'anni di tempo per fermarli.


Mi sembra che manchi la volontà di fermarli, perché, tutto sommato, l'impatto lo si sta reggendo abbastanza bene.

I veri problemi arriveranno quando colmeranno il gap nella ricerca.

Alez_89
00venerdì 10 febbraio 2012 12:35
Re: Re: Re:
AtomBomb, 10/02/2012 11.40:


Si stanno rendendo conto di aver creato un mostro che li tiene per le palle, di aver perso quasi 30 milioni di posti di lavoro che valgono miliardi di dollari, posti che non sono stati ricreati.

La cosa che pare preoccuparli di più è che hanno perso le competenze, le capacità a fare le cose e che i loro competitor potrebbero rubargliele, pensare solo che quando era uscito il primo iPad ce n'era una copia cinese che funzionava anche meglio.

Senza contare questo articolo sulle materie prime e le condizioni imposte per il loro sfruttamento

www.corriere.it/economia/10_agosto_18/pechino-blinda-il-controllo-sui-minerali-preziosi_cfb1fce4-aa93-11df-a60a-00144f02aa...



Vero, praticamente basta qualche aumento dei dazi o qualche atto di forza,non nel senso militare, per creare più di qualche scompiglio nel mercato Occidentale, senza contare quelli che già ci sono.

Il fatto del furto delle conoscenze e tecnologie, leggendo entrambi gli articoli, è già in atto, non oso immaginare se una loro "indipendenza" divenisse più reale e ben consolidata, anche perchè come Occidente siamo e non poco dipendenti da loro; sul fatto dell'Ipad cinese, funzionante e migliore ammetto di non averci fatto caso, però questo dimostra la poca furbizia delle aziende Occidentali, ed allo stesso tempo un asso nella manica del Governo Cinese.

Interessante anche quest'altro articolo, non pensavo si arrivasse a tale dipendenza anche nel campo militare...

Megablast
00venerdì 10 febbraio 2012 12:41
Re: Re: Re: Re:
AtomBomb, 2/10/2012 12:35 PM:


Mi sembra che manchi la volontà di fermarli, perché, tutto sommato, l'impatto lo si sta reggendo abbastanza bene.

I veri problemi arriveranno quando colmeranno il gap nella ricerca.





Per questo ho deto che c'è uno spazio di 10 anni in cui agire, a livello culturale ancora sono indietrissimo. E dovranno comunque affrontare quelle rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza che da noi sono durate quasi un secolo.
AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 12:43
Re: Re: Re: Re:
Alez_89, 2/10/2012 12:35 PM:


Vero, praticamente basta qualche aumento dei dazi o qualche atto di forza,non nel senso militare, per creare più di qualche scompiglio nel mercato Occidentale, senza contare quelli che già ci sono.

Il fatto del furto delle conoscenze e tecnologie, leggendo entrambi gli articoli, è già in atto, non oso immaginare se una loro "indipendenza" divenisse più reale e ben consolidata, anche perchè come Occidente siamo e non poco dipendenti da loro; sul fatto dell'Ipad cinese, funzionante e migliore ammetto di non averci fatto caso, però questo dimostra la poca furbizia delle aziende Occidentali, ed allo stesso tempo un asso nella manica del Governo Cinese.

Interessante anche quest'altro articolo, non pensavo si arrivasse a tale dipendenza anche nel campo militare...



Ma infatti, rendiamoci conto che l'india sforna ingegneri, l'azienda che ha depositato più brevetti l'anno scorso è cinese, nei college USA devono fare le classi separate per etnia, altrimenti gli asiatici si prenderebbero tutti i posti.

AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 12:55
Re: Re: Re: Re: Re:
Megablast, 2/10/2012 12:41 PM:




Per questo ho deto che c'è uno spazio di 10 anni in cui agire, a livello culturale ancora sono indietrissimo. E dovranno comunque affrontare quelle rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza che da noi sono durate quasi un secolo.



Sta tutto nella voglia dei governi di fermare tutto questo, e mi sembra che di voglia ce ne sia ben poca.
Alez_89
00venerdì 10 febbraio 2012 13:02
Re: Re: Re: Re: Re:
AtomBomb, 10/02/2012 12.43:


Ma infatti, rendiamoci conto che l'india sforna ingegneri, l'azienda che ha depositato più brevetti l'anno scorso è cinese, nei college USA devono fare le classi separate per etnia, altrimenti gli asiatici si prenderebbero tutti i posti.




Sapevo della forte presenza della comunità asiatica in nord-america, però caspita questi livelli, sia nati li che esteri, chiamiamoli così, non è un dato da poco. Ora mi chiedo, ma questi dubbi qualcuno non poteva farseli venire prima, immagino che quando tutto sembrava rosa e fiori, difficilmente se li facevano, o chi li faceva veniva demonizzato e censurato, però dovevano agire prima...
Per fare un esempio, anni fa il mio professore di informatica delle superiori, ci raccontava un'aneddoto riguardante Microsoft, ovvero partiva con una domanda, "avete mai visto di chi sono i nomi e cognomi dei programmatori dei software di Microsoft?" la maggior parte dei nomi era indiana. Il punto è questo, non metto in dubbio le qualità delle persone ed allo stesso modo le difficoltà, però non si poteva prevedere ed allo stesso tempo evitare di avere un aumento di personale straniero? così evitando o comunque riducendo il rischio di poter perdere parte delle competenze, tecniche e segreti aziendali, una volta che il personale decida di tornare in patria.
Ammetto di essere uscito in parte fuori dal discorso, però è un quesito che qualcuno doveva porselo a suo tempo

AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 13:41
Re: Re: Re: Re: Re: Re:
Alez_89, 2/10/2012 1:02 PM:



Sapevo della forte presenza della comunità asiatica in nord-america, però caspita questi livelli, sia nati li che esteri, chiamiamoli così, non è un dato da poco. Ora mi chiedo, ma questi dubbi qualcuno non poteva farseli venire prima, immagino che quando tutto sembrava rosa e fiori, difficilmente se li facevano, o chi li faceva veniva demonizzato e censurato, però dovevano agire prima...
Per fare un esempio, anni fa il mio professore di informatica delle superiori, ci raccontava un'aneddoto riguardante Microsoft, ovvero partiva con una domanda, "avete mai visto di chi sono i nomi e cognomi dei programmatori dei software di Microsoft?" la maggior parte dei nomi era indiana. Il punto è questo, non metto in dubbio le qualità delle persone ed allo stesso modo le difficoltà, però non si poteva prevedere ed allo stesso tempo evitare di avere un aumento di personale straniero? così evitando o comunque riducendo il rischio di poter perdere parte delle competenze, tecniche e segreti aziendali, una volta che il personale decida di tornare in patria.
Ammetto di essere uscito in parte fuori dal discorso, però è un quesito che qualcuno doveva porselo a suo tempo



Fondamentalmente perché sono migliori di noi.

Un indiano, cinese, che viene a studiare in occidente, oltre ad avere sulle spalle tutte le aspettative di una vita migliore della propria famiglia, ha passato 20 anni a vedere i suoi genitori lavorare come somari, spaccarsi le ossa, per non portare a casa neanche mangiare a sufficienza; è la fame che li spinge, chi è stato nei college americani mi ha detto che sono delle macchine da guerra.

Un indiano, o cinese, laureato negli USA, con lo stesso voto di un americano, è probabilmente migliore di quell'americano e, oltretutto, lavorerà molto di più e accontentandosi di meno rispetto al suo collega americano, non a caso i primi negozi 24/7 negli USA li hanno aperti gli indiani, i tassisti che dormono in macchina sono i pachistani.

Noi, per fortuna nostra, non abbiamo provato quella situazione, non abbiamo quella fame, ma questi adesso hanno annusato il denaro, e non molleranno la presa tanto facilmente, anzi, molti in india sono convinti che fra 30 anni saranno le nostre classi dirigenti ad andare a studiare da loro.

Fondamentalmente prima ci hanno mangiato il manifatturiero, adesso ci stanno mangiando la qualità, e noi glielo stiamo permettendo perché poche migliaia di imprenditori con questo sistema ci guadagnano.
pizzo83
00venerdì 10 febbraio 2012 13:51
Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re:
AtomBomb, 10.02.2012 13:41:


Fondamentalmente perché sono migliori di noi.

Un indiano, cinese, che viene a studiare in occidente, oltre ad avere sulle spalle tutte le aspettative di una vita migliore della propria famiglia, ha passato 20 anni a vedere i suoi genitori lavorare come somari, spaccarsi le ossa, per non portare a casa neanche mangiare a sufficienza; è la fame che li spinge, chi è stato nei college americani mi ha detto che sono delle macchine da guerra.

Un indiano, o cinese, laureato negli USA, con lo stesso voto di un americano, è probabilmente migliore di quell'americano e, oltretutto, lavorerà molto di più e accontentandosi di meno rispetto al suo collega americano, non a caso i primi negozi 24/7 negli USA li hanno aperti gli indiani, i tassisti che dormono in macchina sono i pachistani.

Noi, per fortuna nostra, non abbiamo provato quella situazione, non abbiamo quella fame, ma questi adesso hanno annusato il denaro, e non molleranno la presa tanto facilmente, anzi, molti in india sono convinti che fra 30 anni saranno le nostre classi dirigenti ad andare a studiare da loro.

Fondamentalmente prima ci hanno mangiato il manifatturiero, adesso ci stanno mangiando la qualità, e noi glielo stiamo permettendo perché poche migliaia di imprenditori con questo sistema ci guadagnano.




Sapevo che tu fossi molto intelligente e questo tuo argomentare me lo conferma.
Di fatto sono assolutamente d'accordo con te anche perché lo vedo direttamente.
Non c'é più alcuna automobile tedesca prodotta in Germania.
Le grosse aziende per poter vendere in Cina devono aprire in Cina, con tutto il passaggio di conoscenze che questo comporta. E l'occidente tutto va a fondo, perchè senza manufatturiero non siamo nulla.


Megablast
00venerdì 10 febbraio 2012 13:55
Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re:
AtomBomb, 2/10/2012 1:41 PM:


Fondamentalmente perché sono migliori di noi.

Un indiano, cinese, che viene a studiare in occidente, oltre ad avere sulle spalle tutte le aspettative di una vita migliore della propria famiglia, ha passato 20 anni a vedere i suoi genitori lavorare come somari, spaccarsi le ossa, per non portare a casa neanche mangiare a sufficienza; è la fame che li spinge, chi è stato nei college americani mi ha detto che sono delle macchine da guerra.

Un indiano, o cinese, laureato negli USA, con lo stesso voto di un americano, è probabilmente migliore di quell'americano e, oltretutto, lavorerà molto di più e accontentandosi di meno rispetto al suo collega americano, non a caso i primi negozi 24/7 negli USA li hanno aperti gli indiani, i tassisti che dormono in macchina sono i pachistani.

Noi, per fortuna nostra, non abbiamo provato quella situazione, non abbiamo quella fame, ma questi adesso hanno annusato il denaro, e non molleranno la presa tanto facilmente, anzi, molti in india sono convinti che fra 30 anni saranno le nostre classi dirigenti ad andare a studiare da loro.

Fondamentalmente prima ci hanno mangiato il manifatturiero, adesso ci stanno mangiando la qualità, e noi glielo stiamo permettendo perché poche migliaia di imprenditori con questo sistema ci guadagnano.



Ma l'indiano medio come problem solver ci lecca il cazzo, a loro manca quella capacità di mettere in atto la propria esperienza nel lavoro (sempre parlando mediamente).
Ho avuto a che fare con molti indiani e cinesi in quest'anno.
Gli indiani sono delle scimmie, inteso non in senso razzista ovviamente.
AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 14:49
Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re:
pizzo83, 2/10/2012 1:51 PM:




Sapevo che tu fossi molto intelligente e questo tuo argomentare me lo conferma.
Di fatto sono assolutamente d'accordo con te anche perché lo vedo direttamente.
Non c'é più alcuna automobile tedesca prodotta in Germania.
Le grosse aziende per poter vendere in Cina devono aprire in Cina, con tutto il passaggio di conoscenze che questo comporta. E l'occidente tutto va a fondo, perchè senza manufatturiero non siamo nulla.





Megablast, 2/10/2012 1:55 PM:



Ma l'indiano medio come problem solver ci lecca il cazzo, a loro manca quella capacità di mettere in atto la propria esperienza nel lavoro (sempre parlando mediamente).
Ho avuto a che fare con molti indiani e cinesi in quest'anno.
Gli indiani sono delle scimmie, inteso non in senso razzista ovviamente.


Il problema di fondo è: cosa c'è che noi sappiamo fare che un indiano/pakistano/cinese/vietnamita non può imparare?

Niente.

Se tu prendi uno di questi laureato bene in un'ottima università occidentale, e lo metti a lavorare con persone capaci, non c'è niente che gli impedisca di arrivare al livello di Monti o Draghi per dire, o di qualche grande ingegnere.

Se un ingegnere indiano laureato in europa lo metti a lavorare coi progettisti di VW o Mercedes, quello fra 15 anni sarà in grado di creare un team suo di lavoro, tornare al suo paese e permettere alla Tata di fare macchine che fanno concorrenza alla Golf o la Classe C, e questo vale per qualsiasi settore.

E' ovvio che poi facciamo dei discorsi protezionistici, perché alla fine noi non stiamo dalla parte dei poveri, perché se fossimo dalla parte dei poveri dovremmo essere felici del loro avanzare, invece, senza essere ipocriti, ci si stringe il culo perché temiamo per il nostro benessere, consci che le risorse sono finite, e non puoi produrre ricchezza infinita, per stare meglio loro dobbiamo rinunciare a qualcosa noi.

Non puoi neanche sperare di livellare le cose, cioè che i costi fissi aumentino anche in quei paesi, perché il rischio è che quando questo accadrà, saremo noi al livello dei PVS.

E le previsioni questo ci dicono



Brazil economy overtakes UK, says CEBR

Brazil has overtaken the UK as the world's sixth largest economy, an economic research group has said.

The Centre for Economics and Business Research (CEBR) said its latest World Economic League Table showed Asian countries moving up and European countries falling back.

The CEBR also predicted that the UK economy would overtake France by 2016.


It also said the eurozone economy would shrink 0.6% in 2012 "if the euro problem is solved", or 2% if it is not.

CEBR chief executive Douglas McWilliams told BBC Radio 4's Today programme that Brazil overtaking the UK was part of a growing trend.

"I think it's part of the big economic change, where not only are we seeing a shift from the west to the east, but we're also seeing that countries that produce vital commodities - food and energy and things like that - are doing very well and they're gradually climbing up the economic league table," he said.

A report based on International Monetary Fund data published earlier this year also said the Brazilian economy would overtake the UK in 2011.

Brazil has a population of about 200 million, more than three times the population of the UK.

The CEBR also said that Russia moved up one spot in its league table to ninth in 2011, and predicted that it would rise to fourth spot by 2020.

It predicted that India, the world's 10th biggest economy in 2011, would become the fifth largest by 2020.

And it said European countries would drop down the table, with Germany falling from fourth in 2011 to seventh in 2020, the UK from seventh to eighth, and France from fifth to ninth.
AtomBomb
00venerdì 10 febbraio 2012 17:45
Sul New York Times è uscito l'editoriale di Krugman, come al solito interessante. Questa volta parla proprio della perdita di posti nel manifatturiero.

Op-Ed Columnist
Money and Morals
By PAUL KRUGMAN
Published: February 9, 2012

Lately inequality has re-entered the national conversation. Occupy Wall Street gave the issue visibility, while the Congressional Budget Office supplied hard data on the widening income gap. And the myth of a classless society has been exposed: Among rich countries, America stands out as the place where economic and social status is most likely to be inherited.

So you knew what was going to happen next. Suddenly, conservatives are telling us that it’s not really about money; it’s about morals. Never mind wage stagnation and all that, the real problem is the collapse of working-class family values, which is somehow the fault of liberals.

But is it really all about morals? No, it’s mainly about money.

To be fair, the new book at the heart of the conservative pushback, Charles Murray’s “Coming Apart: The State of White America, 1960-2010,” does highlight some striking trends. Among white Americans with a high school education or less, marriage rates and male labor force participation are down, while births out of wedlock are up. Clearly, white working-class society has changed in ways that don’t sound good.

But the first question one should ask is: Are things really that bad on the values front?

Mr. Murray and other conservatives often seem to assume that the decline of the traditional family has terrible implications for society as a whole. This is, of course, a longstanding position. Reading Mr. Murray, I found myself thinking about an earlier diatribe, Gertrude Himmelfarb’s 1996 book, “The De-Moralization of Society: From Victorian Virtues to Modern Values,” which covered much of the same ground, claimed that our society was unraveling and predicted further unraveling as the Victorian virtues continued to erode.

Yet the truth is that some indicators of social dysfunction have improved dramatically even as traditional families continue to lose ground. As far as I can tell, Mr. Murray never mentions either the plunge in teenage pregnancies among all racial groups since 1990 or the 60 percent decline in violent crime since the mid-90s. Could it be that traditional families aren’t as crucial to social cohesion as advertised?

Still, something is clearly happening to the traditional working-class family. The question is what. And it is, frankly, amazing how quickly and blithely conservatives dismiss the seemingly obvious answer: A drastic reduction in the work opportunities available to less-educated men.

Most of the numbers you see about income trends in America focus on households rather than individuals, which makes sense for some purposes. But when you see a modest rise in incomes for the lower tiers of the income distribution, you have to realize that all — yes, all — of this rise comes from the women, both because more women are in the paid labor force and because women’s wages aren’t as much below male wages as they used to be.

For lower-education working men, however, it has been all negative. Adjusted for inflation, entry-level wages of male high school graduates have fallen 23 percent since 1973. Meanwhile, employment benefits have collapsed. In 1980, 65 percent of recent high-school graduates working in the private sector had health benefits, but, by 2009, that was down to 29 percent.

So we have become a society in which less-educated men have great difficulty finding jobs with decent wages and good benefits. Yet somehow we’re supposed to be surprised that such men have become less likely to participate in the work force or get married, and conclude that there must have been some mysterious moral collapse caused by snooty liberals. And Mr. Murray also tells us that working-class marriages, when they do happen, have become less happy; strange to say, money problems will do that.

One more thought: The real winner in this controversy is the distinguished sociologist William Julius Wilson.

Back in 1996, the same year Ms. Himmelfarb was lamenting our moral collapse, Mr. Wilson published “When Work Disappears: The New World of the Urban Poor,” in which he argued that much of the social disruption among African-Americans popularly attributed to collapsing values was actually caused by a lack of blue-collar jobs in urban areas. If he was right, you would expect something similar to happen if another social group — say, working-class whites — experienced a comparable loss of economic opportunity. And so it has.

So we should reject the attempt to divert the national conversation away from soaring inequality toward the alleged moral failings of those Americans being left behind. Traditional values aren’t as crucial as social conservatives would have you believe — and, in any case, the social changes taking place in America’s working class are overwhelmingly the consequence of sharply rising inequality, not its cause.
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