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Delocalizzazione, perdita delle competenze e protezionismo

Ultimo Aggiornamento: 10/02/2012 17:45
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09/02/2012 22:49
 
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La Apple delocalizza ancor di più, e finalmente il New York Times si inquieta di ciò che la globalizzazione ha fatto agli esseri umani americani. Praticamente tutti i 70 milioni di iPhone e i 30 milioni di iPad sono fabbricati fuori dagli USA. Apple ha ancora 43 mila dipendenti negli Stati Uniti; ma paga altri 700 mila lavoratori non americani che dipendono da sub-fornitori, contractors e progettisti.

Ora, altri posti di lavoro nell’industria più famosa del mondo stanno per emigrare, e non tornare più
, piange il New York Times. Dalla sua inchiesta emergono alcune realtà sottaciute sui veri rapporti fra capitale e lavoro nel capitalismo terminale.

Apprendiamo dall’inchiesta del massimo giornale americano quanto costa fabbricare un computer che viene messo sul mercato a 1.500 dollari: 22 dollari a Elk Grove (cittadina della Silycon Valley californiana), ma 6 dollari a Singapore, e 4,85 a Taiwan. Su un prezzo finale, ripeto, di 1.500 dollari, il costo del lavoro sembra risibile comunque. Eppure la differenza basta, secondo il dogma liberista, a giustificare la delocalizzazione.

Ma ciò che allarma il New York Times è la scoperta che, ormai, non sono nemmeno più le paghe basse il vero motivo delle ultime delocalizzazioni. Sono, invece, la rapidità ed alta qualità dei lavoratori cinesi impiegati nel montaggio, la vasta e integrata rete di industrie di sub-fornitura, la sua velocità ed adattamento nel rispondere alle richieste di Apple.

Il giornale cita un esempio che mette il freddo alla schiena: poche settimane prima dal lancio sul mercato dell’iPhone, Steve Jobs si accorge che lo schermo in plastica si riga facilmente, e pretende immediatamente, strepitando, uno schermo in vetro. Vi risparmio i dettagli sulla difficoltà tecnica di tagliare rettangolini di vetro temprato ad angoli smussati, problema che una ditta cinese si offre di risolvere. Si tratta di riprogettare la parte all’ultimo minuto, mettere in piedi una linea di montaggio nuova.

Soluzione: altra telefonata in Cina. A mezzanotte ora locale. Là, racconta il New York Times,

«un caposquadra sveglia 8 mila lavoratori che giacciono nei dormitori dell’azienda, a ciascuno di loro viene dato un tè e un biscotto, vengono avviati alle stazioni di lavoro entro mezz’ora e cominciano un turno di lavoro di 12 ore per applicare i vetri nelle cornicette smussate. Entro 96 ore, la ditta stava producendo 10 mila iPhones al giorno».

«L’intera catena di fornitura oggi è in Cina», si esalta un dirigente di Apple: «Hai bisogno di mille guarnizioni in gomma? La fa la ditta a fianco. Vuoi un milione di viti? È la fabbrica nella strada accanto. Vuoi le viti fatte in modo un po’ diverso? Ci vogliono tre ore». E tutto benissimo, con grande qualità e flessibilità, lavorando tanto e con tanti uomini quando c’è bisogno, e poco con pochi uomini quando non occorre.

Conclude un altro dirigente Apple (tutti anonimi, per prudenza, ci vuol niente a farsi licenziare in tronco):

«Non ci dovete criticare per il fatto che usiamo lavoratori cinesi; gli Stati Uniti hanno smesso di produrre gente con le qualità richieste».


E questo, finalmente, allarma il grande giornale americano: la improvvisa consapevolezza che la delocalizzazione – sottoprodotto inevitabile della globalizzazione – ha provocato una perdita di competenze, di know-how e di tessuto industriale nella nazione, che sta diventando irreversibile.

Non ci saranno mai più in USA i lavoratori «ideali» per il capitalismo terminale – ossia alloggiati a migliaia nei dormitori aziendali, svegliabili nel cuore della notte per cominciare turni di 12 ore, nutriti con tè e un biscotto – perchè i lavoratori americani, pur disposti a quella nuova vita, non sono più capaci di fare il lavoro.


Lavoratori cinesi dormono durante turni di assemblaggio di mouse Microsoft

Ovviamente, il giornale di New York non arriva a dire esplicitamente che quelle capacità dei lavoratori cinesi ed asiatici, e il tessuto di distretti industriali integrati che risponde alle «esigenze della casa», non sono eventi naturali: sono stati «regalati» dall’ex Primo Mondo alla Cina e all’Asia, a forza di globalizzazione. È la conseguenza di aver ammesso la Cina nel «mercato globale» nonostante le sue violazioni delle condizioni dettate dal WTO per gli (altri) attori del mercato globale: libera fluttuazione della moneta nazionale, condizioni «decenti» di lavoro, adesione ai Protocolli di Kyoto sull’inquinamento, assenza di dazi doganali.

A queste condizioni, beninteso, solo gli occidentali obbediscono. La Cina invece può infischiarsene delle norme sull’inquinamento, alloggiare i suoi schiavi nei dormitori, violare i minimi sindacali, e distorcere il valore della sua moneta nazionale tenendolo artificialmente basso con interventi monetari di Stato, senza incorrere nelle multe miliardarie del WTO.

Il gioco è sleale, i dadi sono truccati. Ma metterli in discussione significa evocare una parola demoniaca, censurata, una parola tabù: protezionismo.

Nel 2009, la Francia è stata minacciata di sanzioni dalla commissaria europea alla concorrenza, Neelie Kroes, per aver condizionato il sostegno pubblico alla sua industria automobilistica a un impegno a non-delocalizzare e a proteggere i posti di lavoro interni. Nello stesso tempo Pechino ha imposto un dazio del 23% sull’importazione di aerei di medio raggio, obbligando Airbus e Boeing a fabbricare aerei in Cina, dunque ad insegnare là le competenze e creare le strutture che accetta di far sparire da questa parte del mondo; in attesa del momento in cui, inevitabilmente, la Cina avrà imparato a sostituire anche i quartier generali di progettazione. E allora ci sarà uno Steve Jobs clonato con occhi a mandorla. Perchè la perdita di know how non si ferma certo al livello dei tecnici di medio rango.

Ma non si può ripagare la Cina con la sua moneta, mettendo dazi contro le sue merci: è «protezionismo», e la dogmatica economica vigente sostiene che il protezionismo fu la causa della grande depressione 1929-39. Ora, i custodi del dogma sostengono che il protezionismo è una tentazione da respingere, perchè sarebbe la discesa nell’inferno della miseria e della rovina economica – specie dei nostri esportatori occidentali.


Ma è proprio così?

Recentemente il Mercosur (la sorta di mercato comune che unisce i Paesi sudamericani, compreso Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più Venezuela, Bolivia ed Equador come associati) ha introdotto di comune accordo misure di protezione del suo mercato interno contro le merci a basso prezzo provenienti dalla Cina e dagli USA, entrambi accusati di mantenere artificiosamente svalutata la loro moneta. Il Brasile ha imposto diritti di dogana del 30% sulle auto importate dall’estero. Vale la pena di notare che si tratta di Paesi in crescita, nei quali il protezionismo non porta alla rovina, ma al contrario ha provocato alcuni fenomeni di ri-localizzazione. L’Argentina, ponendo dazi sui Blackberry importati, ha «convinto» la ditta produttice, la multinazionale RIM, a produrre in Argentina i cellulari che vi vende.

Il cordone sanitario dei dazi non significa rinunciare alla concorrenza. Al contrario, significa ristabilire condizioni di concorrenza leali all’interno del mercato europeo, in quanto le aziende estere che intendono continuare a profittare del grande mercato europeo dovranno portare almeno parte della produzione in Europa e dovranno produrre nelle stesse condizioni della aziende europee.

Il protezionismo abbasserà il costo della vita, attraverso il rincaro dei prodotti importati e gravati da dazi doganali?

Giraud ci ricorda questa semplice verità: i prezzi bassi dei cellulari e computer asiatici sono un’illusione. Ciò che oggi in Europa guadagnamo come consumatori di merci a buon mercato, lo perdiamo come salariati, data la compressione dei salari dovuta alla globalizzazione (le nostre paghe stanno scendondo verso quelle cinesi); senza contare il gravissimo costo, mai conteggiato, della perdita di competenze e tessuto industriale irreversibile, che è niente meno che il degrado della civiltà occidentale.

Bisogna tenere in conto che alle elevazioni di dazi o tariffe europee il resto del mondo, Cina anzitutto, risponderebbe con ritorsioni, con dazi sulle nostre esportazioni. Le imprese esportatrici europee ne soffrirebbero, ci viene detto coi toni più allarmistici.
Ma è mai stato fatto il calco dei costi-benefici? Giraud è il primo a provarci, buttando giù due cifre: che valgono per la Francia, ma sostanzialmente anche per l’Italia.

Nel 2008, erano 100 mila le imprese francesi che esportavano all’estero: sembrano tante, ma sono una impresa su 20 (le altre 19 lavorano per il mercato nazionale). Non basta: la metà delle piccole-medie imprese esportatrici ha come sbocco Paesi dell’Europa, dunque non sarebbero penalizzate dal cordone sanitario dei dazi doganali. Solo un quarto esportano verso un Paese emergente.

D’altra parte, i Paesi grandi esportatori hanno bisogno di rivalorizzare la domanda interna, anzichè spingere l’export con tutti i mezzi. In Cina, il consumo delle famiglie rappresenta meno del 35% del PIL. È evidente che i successi che la Cina ha tratto dalla globalizzazione non sono distribuiti ai suoi salariati; e che i cinesi consumano troppo poco.

Prima della apertura ai mercati mondiali, la Cina aveva un’assicurazione sanitaria rudimentale, ma universale; è stata abolita per accrescere il suo «vantaggio competitivo» abbassando ulteriormente il suo costo del lavoro.
È a questa logica aberrante che l’erezione di barriere doganali europee farebbe da ostacolo.

Con i suoi 450 milioni di abitanti che hanno ancora competenze e solvibilità, l’Europa resta il mercato più vasto e ricco del mondo e potenzialmente con una buona misura di autosufficienza; ha dunque argomenti da far valere a quei Paesi che minacciassero ritorsioni commerciali, onde negoziare le condizioni a cui accetta di acquistare da fuori beni e servizi. Del resto, abbiamo già detto che la Cina pone un dazio del 23% sugli Airbus, e che il Brasile mette un dazio del 30% sulle auto importate. Il che significa che già subiamo «ritorsioni», senza aver nemmeno cominciato a praticare il protezionismo.

È ora che queste «sacre» regole siano oggetto di un vero dibattito democratico. Occorre che si acquisti coscienza della perdita di competenze e reti industriali irreversibile, che è il vero costo della globalizzazione. Bisogna dare la coscienza di massa che il dumping salariale, la «deflazione interna» e l’austerità, non è la sola via che ci resta per risanare l’economia.

Ovviamente, ci si devono aspettare forti e varie opposizioni. L’Inghilterra resterà ostile per tradizione (ha inventato il liberismo mondializzato) e per le sue relazioni transatlantiche. La Germania ha scelto la via delle esportazioni extra-europee come motore principale della sua crescita; dato il suo attuale successo, si sente come il grande beneficiario del libero-scambismo globale. Occorrerà attendere che l’illusorietà di questa soluzione sia manifesta, come inevitabilmente avverrà.

L’America che credeva di essere la grande favorita della globalizzazione, sta scoprendo amaramente – come rivela il New York Times – di aver perso la produttività dei suoi lavoratori e la loro alta qualità, a vantaggio dei cinesi che hanno imparato – nelle imprese delocalizzate dall’Occidente – il lavoro di qualità, per giunta più flessibile, più rapido, più integrato in distretti industriali nuovi di zecca, e a basso costo. L’illusione tedesca è, a termine, insostenibile, verrà il giorno in cui scoprirà di non essere competitiva di fronte alle competenze acquisite (anzi, che abbiamo regalato) ai giganti demografici asiatici. Allora si troverà davanti ad una dolorosa revisione di strategia, e di ideologia.

Quando? «Una revisione profonda del concetto stesso di concorrenza», conclude tristemente Giraud, «non è oggi alla portata intellettuale della Commissione Europea, nè della Organizzazione Mondiale del Commercio».


Maurizio Blondet

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Se vi interessa, qui l'inchiesta del New York Times nyti.ms/A2qBQA
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Il protezionismo è la prima arma per i paesi industrializzati, soprattutto per evitare che gli emergenti diventino troppo forti da poterli poi fermare.
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il protezionismo è quello che tremonti avrebbe sempre voluto fare
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Re:
AtomBomb, 09/02/2012 22.49:

L
«un caposquadra sveglia 8 mila lavoratori che giacciono nei dormitori dell’azienda, a ciascuno di loro viene dato un tè e un biscotto, vengono avviati alle stazioni di lavoro entro mezz’ora e cominciano un turno di lavoro di 12 ore per applicare i vetri nelle cornicette smussate. Entro 96 ore, la ditta stava producendo 10 mila iPhones al giorno».

«L’intera catena di fornitura oggi è in Cina», si esalta un dirigente di Apple: «Hai bisogno di mille guarnizioni in gomma? La fa la ditta a fianco. Vuoi un milione di viti? È la fabbrica nella strada accanto. Vuoi le viti fatte in modo un po’ diverso? Ci vogliono tre ore». E tutto benissimo, con grande qualità e flessibilità, lavorando tanto e con tanti uomini quando c’è bisogno, e poco con pochi uomini quando non occorre.



Noto la facilità di competere con mercati del genere,si è già bruciati in partenza...

AtomBomb, 09/02/2012 22.49:

L
Il protezionismo abbasserà il costo della vita, attraverso il rincaro dei prodotti importati e gravati da dazi doganali?

Giraud ci ricorda questa semplice verità: i prezzi bassi dei cellulari e computer asiatici sono un’illusione. Ciò che oggi in Europa guadagnamo come consumatori di merci a buon mercato, lo perdiamo come salariati, data la compressione dei salari dovuta alla globalizzazione (le nostre paghe stanno scendondo verso quelle cinesi); senza contare il gravissimo costo, mai conteggiato, della perdita di competenze e tessuto industriale irreversibile, che è niente meno che il degrado della civiltà occidentale.


Alla faccia del benessere, altro che megasconti o altro, mega povertà è in arrivo...

AtomBomb, 09/02/2012 22.49:

L
L’America che credeva di essere la grande favorita della globalizzazione, sta scoprendo amaramente – come rivela il New York Times – di aver perso la produttività dei suoi lavoratori e la loro alta qualità, a vantaggio dei cinesi che hanno imparato – nelle imprese delocalizzate dall’Occidente – il lavoro di qualità, per giunta più flessibile, più rapido, più integrato in distretti industriali nuovi di zecca, e a basso costo. L’illusione tedesca è, a termine, insostenibile, verrà il giorno in cui scoprirà di non essere competitiva di fronte alle competenze acquisite (anzi, che abbiamo regalato) ai giganti demografici asiatici. Allora si troverà davanti ad una dolorosa revisione di strategia, e di ideologia.




Alla fine il Boomerang è tornato, e gli americani l'hanno preso sui denti, e probabilmente lo prenderanno pure i tedeschi se si continua con questa strada

L'articolo è molto interessante, rischierò di dire una cazzata, sbaglio o ultimamente gli americani stanno facendo un'autorevisione delle loro azioni degli ultimi decenni?
Ovvero noto molti articoli dagli Stati Uniti, in cui stanno ammettendo vari sbagli, ovvio che in una situazione del genere è inevitabile parlarne, però mi sembra ci sia un leggero cambio di linea di pensiero (inevitabilmente avranno capito che questo sistema ha fallito)
[Modificato da Alez_89 10/02/2012 11:26]
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Re:
Megablast, 2/10/2012 8:47 AM:

Il protezionismo è la prima arma per i paesi industrializzati, soprattutto per evitare che gli emergenti diventino troppo forti da poterli poi fermare.


Secondo me siamo ancora in tempo, alla fine vivono ancora dei lavori che portiamo noi, di autoctono hanno ancora poco, sono già al livello di eccellenze che impiegano poche persone, togliamogli i lavori, li facciamo tornare indietro, lasciamo che con gli arabi se la vedano gli ebrei, e dichiariamo guerra a Cina e India. [SM=x2584265]

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Re: Re:
Alez_89, 2/10/2012 11:23 AM:



Alla fine il Boomerang è tornato, e gli americani l'hanno preso sui denti, e probabilmente lo prenderanno pure i tedeschi se si continua con questa strada

L'articolo è molto interessante, rischierò di dire una cazzata, sbaglio o ultimamente gli americani stanno facendo un'autorevisione delle loro azioni degli ultimi decenni?
Ovvero noto molti articoli dagli Stati Uniti, in cui stanno ammettendo vari sbagli, ovvio che in una situazione del genere è inevitabile parlarne, però mi sembra ci sia un leggero cambio di linea di pensiero (inevitabilmente avranno capito che questo sistema ha fallito)


Si stanno rendendo conto di aver creato un mostro che li tiene per le palle, di aver perso quasi 30 milioni di posti di lavoro che valgono miliardi di dollari, posti che non sono stati ricreati.

La cosa che pare preoccuparli di più è che hanno perso le competenze, le capacità a fare le cose e che i loro competitor potrebbero rubargliele, pensare solo che quando era uscito il primo iPad ce n'era una copia cinese che funzionava anche meglio.

Senza contare questo articolo sulle materie prime e le condizioni imposte per il loro sfruttamento

www.corriere.it/economia/10_agosto_18/pechino-blinda-il-controllo-sui-minerali-preziosi_cfb1fce4-aa93-11df-a60a-00144f02aa...

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Re: Re:
AtomBomb, 2/10/2012 11:33 AM:


Secondo me siamo ancora in tempo, alla fine vivono ancora dei lavori che portiamo noi, di autoctono hanno ancora poco, sono già al livello di eccellenze che impiegano poche persone, togliamogli i lavori, li facciamo tornare indietro, lasciamo che con gli arabi se la vedano gli ebrei, e dichiariamo guerra a Cina e India. [SM=x2584265]





Ma infatti gli emergenti non valgono un cazzo, abbiamo ancora una decina d'anni di tempo per fermarli.
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Re: Re: Re:
Megablast, 2/10/2012 12:04 PM:




Ma infatti gli emergenti non valgono un cazzo, abbiamo ancora una decina d'anni di tempo per fermarli.


Mi sembra che manchi la volontà di fermarli, perché, tutto sommato, l'impatto lo si sta reggendo abbastanza bene.

I veri problemi arriveranno quando colmeranno il gap nella ricerca.

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Re: Re: Re:
AtomBomb, 10/02/2012 11.40:


Si stanno rendendo conto di aver creato un mostro che li tiene per le palle, di aver perso quasi 30 milioni di posti di lavoro che valgono miliardi di dollari, posti che non sono stati ricreati.

La cosa che pare preoccuparli di più è che hanno perso le competenze, le capacità a fare le cose e che i loro competitor potrebbero rubargliele, pensare solo che quando era uscito il primo iPad ce n'era una copia cinese che funzionava anche meglio.

Senza contare questo articolo sulle materie prime e le condizioni imposte per il loro sfruttamento

www.corriere.it/economia/10_agosto_18/pechino-blinda-il-controllo-sui-minerali-preziosi_cfb1fce4-aa93-11df-a60a-00144f02aa...



Vero, praticamente basta qualche aumento dei dazi o qualche atto di forza,non nel senso militare, per creare più di qualche scompiglio nel mercato Occidentale, senza contare quelli che già ci sono.

Il fatto del furto delle conoscenze e tecnologie, leggendo entrambi gli articoli, è già in atto, non oso immaginare se una loro "indipendenza" divenisse più reale e ben consolidata, anche perchè come Occidente siamo e non poco dipendenti da loro; sul fatto dell'Ipad cinese, funzionante e migliore ammetto di non averci fatto caso, però questo dimostra la poca furbizia delle aziende Occidentali, ed allo stesso tempo un asso nella manica del Governo Cinese.

Interessante anche quest'altro articolo, non pensavo si arrivasse a tale dipendenza anche nel campo militare...

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Re: Re: Re: Re:
AtomBomb, 2/10/2012 12:35 PM:


Mi sembra che manchi la volontà di fermarli, perché, tutto sommato, l'impatto lo si sta reggendo abbastanza bene.

I veri problemi arriveranno quando colmeranno il gap nella ricerca.





Per questo ho deto che c'è uno spazio di 10 anni in cui agire, a livello culturale ancora sono indietrissimo. E dovranno comunque affrontare quelle rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza che da noi sono durate quasi un secolo.
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Re: Re: Re: Re:
Alez_89, 2/10/2012 12:35 PM:


Vero, praticamente basta qualche aumento dei dazi o qualche atto di forza,non nel senso militare, per creare più di qualche scompiglio nel mercato Occidentale, senza contare quelli che già ci sono.

Il fatto del furto delle conoscenze e tecnologie, leggendo entrambi gli articoli, è già in atto, non oso immaginare se una loro "indipendenza" divenisse più reale e ben consolidata, anche perchè come Occidente siamo e non poco dipendenti da loro; sul fatto dell'Ipad cinese, funzionante e migliore ammetto di non averci fatto caso, però questo dimostra la poca furbizia delle aziende Occidentali, ed allo stesso tempo un asso nella manica del Governo Cinese.

Interessante anche quest'altro articolo, non pensavo si arrivasse a tale dipendenza anche nel campo militare...



Ma infatti, rendiamoci conto che l'india sforna ingegneri, l'azienda che ha depositato più brevetti l'anno scorso è cinese, nei college USA devono fare le classi separate per etnia, altrimenti gli asiatici si prenderebbero tutti i posti.

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Re: Re: Re: Re: Re:
Megablast, 2/10/2012 12:41 PM:




Per questo ho deto che c'è uno spazio di 10 anni in cui agire, a livello culturale ancora sono indietrissimo. E dovranno comunque affrontare quelle rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza che da noi sono durate quasi un secolo.



Sta tutto nella voglia dei governi di fermare tutto questo, e mi sembra che di voglia ce ne sia ben poca.
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Re: Re: Re: Re: Re:
AtomBomb, 10/02/2012 12.43:


Ma infatti, rendiamoci conto che l'india sforna ingegneri, l'azienda che ha depositato più brevetti l'anno scorso è cinese, nei college USA devono fare le classi separate per etnia, altrimenti gli asiatici si prenderebbero tutti i posti.




Sapevo della forte presenza della comunità asiatica in nord-america, però caspita questi livelli, sia nati li che esteri, chiamiamoli così, non è un dato da poco. Ora mi chiedo, ma questi dubbi qualcuno non poteva farseli venire prima, immagino che quando tutto sembrava rosa e fiori, difficilmente se li facevano, o chi li faceva veniva demonizzato e censurato, però dovevano agire prima...
Per fare un esempio, anni fa il mio professore di informatica delle superiori, ci raccontava un'aneddoto riguardante Microsoft, ovvero partiva con una domanda, "avete mai visto di chi sono i nomi e cognomi dei programmatori dei software di Microsoft?" la maggior parte dei nomi era indiana. Il punto è questo, non metto in dubbio le qualità delle persone ed allo stesso modo le difficoltà, però non si poteva prevedere ed allo stesso tempo evitare di avere un aumento di personale straniero? così evitando o comunque riducendo il rischio di poter perdere parte delle competenze, tecniche e segreti aziendali, una volta che il personale decida di tornare in patria.
Ammetto di essere uscito in parte fuori dal discorso, però è un quesito che qualcuno doveva porselo a suo tempo

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Re: Re: Re: Re: Re: Re:
Alez_89, 2/10/2012 1:02 PM:



Sapevo della forte presenza della comunità asiatica in nord-america, però caspita questi livelli, sia nati li che esteri, chiamiamoli così, non è un dato da poco. Ora mi chiedo, ma questi dubbi qualcuno non poteva farseli venire prima, immagino che quando tutto sembrava rosa e fiori, difficilmente se li facevano, o chi li faceva veniva demonizzato e censurato, però dovevano agire prima...
Per fare un esempio, anni fa il mio professore di informatica delle superiori, ci raccontava un'aneddoto riguardante Microsoft, ovvero partiva con una domanda, "avete mai visto di chi sono i nomi e cognomi dei programmatori dei software di Microsoft?" la maggior parte dei nomi era indiana. Il punto è questo, non metto in dubbio le qualità delle persone ed allo stesso modo le difficoltà, però non si poteva prevedere ed allo stesso tempo evitare di avere un aumento di personale straniero? così evitando o comunque riducendo il rischio di poter perdere parte delle competenze, tecniche e segreti aziendali, una volta che il personale decida di tornare in patria.
Ammetto di essere uscito in parte fuori dal discorso, però è un quesito che qualcuno doveva porselo a suo tempo



Fondamentalmente perché sono migliori di noi.

Un indiano, cinese, che viene a studiare in occidente, oltre ad avere sulle spalle tutte le aspettative di una vita migliore della propria famiglia, ha passato 20 anni a vedere i suoi genitori lavorare come somari, spaccarsi le ossa, per non portare a casa neanche mangiare a sufficienza; è la fame che li spinge, chi è stato nei college americani mi ha detto che sono delle macchine da guerra.

Un indiano, o cinese, laureato negli USA, con lo stesso voto di un americano, è probabilmente migliore di quell'americano e, oltretutto, lavorerà molto di più e accontentandosi di meno rispetto al suo collega americano, non a caso i primi negozi 24/7 negli USA li hanno aperti gli indiani, i tassisti che dormono in macchina sono i pachistani.

Noi, per fortuna nostra, non abbiamo provato quella situazione, non abbiamo quella fame, ma questi adesso hanno annusato il denaro, e non molleranno la presa tanto facilmente, anzi, molti in india sono convinti che fra 30 anni saranno le nostre classi dirigenti ad andare a studiare da loro.

Fondamentalmente prima ci hanno mangiato il manifatturiero, adesso ci stanno mangiando la qualità, e noi glielo stiamo permettendo perché poche migliaia di imprenditori con questo sistema ci guadagnano.
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