AtomBomb
00martedì 20 dicembre 2011 13:33
Arrivano le prime vittime della manovra
‘Dimessi’ dall’azienda e ora senza pensione
Ecco le vittime della manovra
Sono stati incentivati a lasciare il lavoro, ma ora restano senza reddito. Il superscalone li costringe ad altri 5-6 anni di attività, ma un'entrata a fine mese non ce l'hanno più. Per esempio i 5000 ex dipendenti delle Poste sono finiti nel limbo
Una nuova polemica emerge dalle pieghe della riforma pensionistica. Stavolta
riguarda i lavoratori “esodati” che qualcuno, addirittura, definisce “soprannumerari”, figli illegittimi di aziende fallite o che si sono licenziati in previsione della pensione a portata di mano nel 2012 o 2013. E che ora si trovano in una terra di nessuno, fuori dal lavoro e con la riva della pensione che si allontana di colpo aprendo la prospettiva a un vuoto di reddito spaventoso. In seguito alla riforma Monti-Fornero esistono in circolazione alcune decine di migliaia – stima sindacale – di lavoratori che prevedendo una pensione a portata di mano hanno accettato “esodi” volontari da parte di aziende in ristrutturazione oppure si sono licenziati con buonuscite commisurate agli anni mancanti alla pensione. Solo che adesso quest’ultima si è allontanata di 5 o 6 anni grazie al “superscalone Fornero”. I sindacati chiedono che per questi lavoratori valgano le vecchie regole ma non hanno ricevuto alcuna rassicurazione da parte dell’esecutivo che si è detto pronto a esaminare il dossier ma che non ha preso impegni.
IL CASO forse più eclatante riguarda le
Poste, dove circa 5000 dipendenti (ma molti lavoratori parlano di 7000 unità) hanno concordato con l’Azienda un esodo incentivato e oggi sono a metà strada. Il sindacato ha chiesto un incontro urgente all’azienda che però non ha dato nessuna risposta. Sulla Rete si possono trovare testimonianze come questa: “Ho maturato ad oggi 39 anni e 2 mesi contributivi. Lavoro in Poste Italiane come dirigente d’ufficio. In aprile mi hanno proposto di farmi accompagnare alla pensione che maturavo a fine 2012. Ho iniziato a lavorare giovane, ho studiato e mi sono laureato mentre lavoravo e pagavo i contributi. Ora con la nuova normativa mi trovo senza stipendio e dovendo pagare i contributi per due anni. Poste dice che il firmato è consensuale e che continuare a lavorare è impossibile. Quindi dal primo gennaio 2012 sono a casa, accompagnato non al meritato riposo dopo quaranta anni di contribuzione, ma al patibolo”.
ECCO UN’ALTRA testimonianza: “Mi ritrovo il 31 gennaio 2012 con 57 anni di età e 35 anni di contributi. Dalla fine di dicembre 2011 entrerò in mobilità per 3 anni (azienda fallita). Alla fine della mobilità avrò 59 anni e 11 mesi con 38 anni di contributi. Se non viene modificata la legge ho due opzioni: la prima pagare i contributi volontari per 4 anni e 3 mesi oppure aspettare altri 6 o 7 anni per la pensione di vecchiaia. In entrambi i casi senza nessun reddito”. A volte le cose sono più complesse: “Sono uscita dalle Poste il 1 di luglio: mi hanno proposto di licenziarmi (dopo 35 anni e 6 mesi di lavoro, a 59 anni) in cambio dell’assunzione part-time di mia figlia. Ho accettato perché avevo la pensione a portata di mano ma ora con la riforma sono diventati 5 anni e mezzo!”.
A PARTE l’atipica procedura che seguono le Poste nelle assunzioni dei familiari, è evidente che la nuova norma provoca un impatto molto pesante su chi resta senza reddito. A essere subissato da queste lettere è soprattutto il Pd che aveva fatto precise promesse sulle pensioni di anzianità – “i 40 anni di contributi non si toccano” – ma che invece ha dovuto e voluto ingoiare diversi rospi e ora deve rendere conto. Ne è consapevole Cesare Damiano che proprio sugli “esodati” ha presentato l’ordine del giorno alla Camera, accolto dal governo, e che ora punta a risolvere questo problema insieme a quello dei lavoratori “precoci”, cioè lavoratori che hanno iniziato a lavorare davvero molto presto e che raggiungono i 42 anni di contributi prima dei 62 anni di età e quindi sono soggetti a “penalizzazione”. Gli occhi sono puntati sul “decreto milleproroghe”, quel provvedimento monstre con cui i vari governi hanno sempre ovviato a tutti gli errori o inadempienze prodotti dalle scadenze stabilite nelle varie leggi e non rispettate. “Il problema dei lavoratori precoci può trovare soluzione nel “milleproroghe – dice a Il Fatto Quotidiano l’ex ministro del Welfare Cesare Damiano (Pd) che assicura la presentazione dell’emendamento per cacellare la penalizzazione – per gli “esodati”, invece, vogliamo un intervento rapido del governo”. Ma Monti e Fornero sono d’accordo? Damiano afferma che la “disponibilità del governo sta nel fatto che ha accolto un ordine del giorno e che ora deve tradurre in una disposizione normativa”. Il ministro Elsa Fornero ha detto che studierà il dossier. Gli strasichi della sua riforma sono molto più difficili da gestire del previsto.
AtomBomb
00venerdì 30 dicembre 2011 11:00
Benzina e caselli: anno nuovo, aumenti vecchi
Dal 2012, viaggiare in auto è roba da ricchi
Autostrade più care del cinque per cento dal primo gennaio e carburante alle stelle: rispetto al 2010 un pieno costa diciassette euro in più. Un salasso che alle famiglie, solo per diesel e benzina, costa in media 300 euro all'anno di aumento, per la gioia di concessionari e speculatori
Benzina e autostrade. Un mix di aumenti che può costare assai caro agli italiani (ancor di più se sul piatto si mette anche la Rc auto). Le batoste sui pedaggi partiranno da domenica primo gennaio, lo confermano al Fatto Quotidiano fonti governative, per i carburanti, invece, l’impennata è già una dura realtà: ieri il prezzo consigliato nei distributori dell’Eni stabiliva un nuovo record (1, 722 euro al litro per la ‘verde’ e 1,694 per il diesel).
Un anno fa, per capirci, si pagavano quasi trenta centesimi al litro in meno: questo significa, a stare a un calcolo del Codacons, che un pieno di gasolio per un’auto di media cilindrata in dodici mesi è aumentato di 17,3 euro, di 13 euro se si va a benzina. Vale a dire, con un paio di pieni al mese per un anno, un salasso che supera i 300 euro. La colpa, dice Luca Squeri, capo della Federazione dei benzinai (Figisc), è dei governi Monti e Berlusconi: “Se le quotazioni internazionali del greggio e dei prodotti finiti hanno pesato per il 25 per cento sull’aumento dei prezzi in Italia, per il 75 per cento vi hanno invece influito gli aumenti di accisa e Iva. Oggi, senza quegli aumenti, la benzina costerebbe 19 centesimi/litro in meno e il gasolio 22″.
Critica condivisa da Carlo Rienzi, ma il presidente del Codacons ci aggiunge pure “i soliti aumenti speculativi dei prezzi alla pompa che si registrano puntualmente in occasione delle grandi partenze”. Come che sia, pare che grazie a questi prezzi record durante queste feste se ne andranno in fumo – letteralmente – 215 milioni di euro in più in tutto. Disperati gli agricoltori: per loro, infatti, non solo aumentano i costi di produzione, ma prosegue quel circolo vizioso per cui i consumatori spostano sul trasporto quanto prima spendevano per la tavola. Poi c’è il problema delle tariffe autostradali, che sono una fonte di guadagni enormi per i titolari di concessioni (Benetton, Toto, gruppo Gavio, enti locali, Anas) nonostante un rischio di impresa pari a zero.
Un recente studio della Cgia di Mestre spiega meglio di mille parole quello che è successo al prezzo dei servizi pubblici in questi dieci anni: “Se in poco più di un decennio – dal 2000 all’ottobre di quest’anno – il costo della vita è aumentato del 27,1 per cento, la tariffa dell’acqua potabile, per esempio, è cresciuta del 70,2 per cento, quella della raccolta rifiuti del 61 per cento, i biglietti dei trasporti ferroviari del 53,2 per cento”. Buoni quarti, proprio i pedaggi autostradali: + 49,1 per cento, ventidue punti più dell’inflazione. Nel 2010, per dire, l’aumento medio è stato superiore al 6 per cento con un picco straordinario del 19 per cento per la Torino-Milano.
Insomma, una crescita che non conosce sosta e non ha più ragion d’essere nella remunerazione dell’investimento iniziale (la costruzione dell’autostrada), ormai ammortizzato del tutto o quasi, né per la qualità e tempestività degli investimenti fatti sulla rete: per la prima ognuno può giudicare viaggiando in macchina, per la seconda basti citare la Banca d’Italia, secondo cui molti concessionari non hanno completato neanche il 60 per cento degli ampliamenti previsti nel 1997 e appena il 3 per cento di quelli proposti nel 2004. Nonostante questo le società del settore raccolte nell’Aiscat hanno chiesto quest’anno aumenti medi tra il 3 e il 5 per cento.
D’altronde è così che funziona. Il meccanismo che regola le tariffe autostradali si chiama price cap, una sorta di tetto al prezzo di un servizio che si usa in caso di monopoli naturali, laddove cioè la spinta all’efficienza e alla diminuzione dei costi sarebbe pressoché nulla. Nel merito, per stabilire il costo delle autostrade si usano vari parametri: il recupero del 70 per cento dell’inflazione programmata, gli investimenti sulla rete, la qualità del servizio (tra cui il numero di incidenti), gli obiettivi di risparmio indicati dal regolatore (Anas). Teoricamente, insomma, potrebbe anche darsi che le tariffe diminuiscano, solo che non è mai successo: a settembre i concessionari presentano la loro proposta di adeguamento tariffario, l’Anas fa la sua istruttoria per capire se il prezzo è giusto e presenta la sua (non necessariamente la stessa) ai ministeri competenti – Tesoro e Infrastrutture – che devono prendere una decisione entro il 31 dicembre. Il governo, ha proposto ieri il Pd Michele Meta, blocchi gli aumenti per il 2012 per “evitare di pesare ancor di più sui già prosciugati bilanci familiari”. Non è possibile, è la risposta raccolta da ambienti dell’esecutivo: “Stante il sistema vigente delle concessioni si tratta di un adempimento obbligatorio. E’ vero che qualcuno ha provato in passato a bloccare le tariffe, ma poi dopo sei mesi ha dovuto concedere aumenti anche maggiori per recuperare”. Non è ancora chiaro se Monti e Passera concederanno aumenti fino al 5 per cento come chiedono i concessionari: se può essere un indicatore, però, negli ultimi due giorni la Atlantia dei Benetton ha guadagnato quasi due punti in Borsa.
--------------------------------------
Autostrade, un affare a rischio zero. Profitti garantiti e concessioni allungate di 20 anni
Da decenni le tariffe non servono più a ripagare l'investimento iniziale, ma solo ad arricchire l'azionista: prima lo Stato, poi i privati. Il governo Berlusconi innalzò la durata dell'affidamento del servizio da 30 a 50 anni
“La cuccagna è finita”. Antonio Di Pietro riassunse così il suo programma sulle concessioni autostradali quando divenne ministro delle Infrastrutture nel 2006. Poi la cosa non andò proprio così e pure il leader di IdV dovette inchinarsi alla potenza di fuoco dell’Aiscat, la Confindustria delle società del settore. L’espressione, dunque, vale ancora oggi: il sistema delle concessioni autostradali è una cuccagna per i fortunati che ne fanno parte visto che genera profitti enormi e pressocché certi. Praticamente un beauty contest per le frequenze tv moltiplicato per mille. Andiamo con ordine. La costruzione delle autostrade italiane comincia nella seconda metà degli anni ’50 già in concessione (ma ad aziende o istituzioni pubbliche): “Le concessioni erano basate sulla logica della tariffa-remunerazione: i pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti con i quali veniva finanziato l’investimento”, spiega Giorgio Ragazzi nel suo I signori delle autostrade (Il Mulino).
Il grosso dei lavori finisce a metà degli anni ’70 e in una ventina d’anni, il calcolo è sempre di Ragazzi, “molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere per avvenuto integrale recupero del capitale investito”. E invece vengono prolungate. Perché? “Quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’Iri, e l’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade (definita al tempo “gallina dalle uova d’oro”). Il resto della rete, con la sola eccezione della Torino-Milano, era di proprietà di Province e comuni e quindi anch’essa pubblica”. Nel 1999-2000, poi, la privatizzazione (a palazzo Chigi c’era D’Alema). “Il problema vero è che se consideriamo l’enorme allungamento delle concessioni e il sistema delle tariffe, il prezzo è stato troppo basso. Lo Stato ci ha perso dei soldi e per di più, con un regolatore debole come Anas, non è riuscito a trasferire i guadagni di efficienza agli utenti”, spiega Andrea Giuricin, esperto dell’Istituto Bruno Leoni.
E così il governo concede ai concessionari tariffe adeguate a ripagare un investimento che è già stato ripagato nei decenni precedenti e gli chiede di fare investimenti in nuove infrastrutture che poi arrivano col contagocce. Risultato: guadagni inauditi. I Benetton in sei anni avevano quadruplicato l’investimento iniziale, Gavio l’aveva visto moltiplicarsi per venti. Oltre al prolungamento delle concessioni – l’ultimo regalo è di Berlusconi: da 30 a 50 anni – ci sono le tariffe, elaborate con un sistema definibile “price cup all’italiana”: si tiene conto dell’inflazione, di obiettivi di efficienza, del traffico previsto e, incredibilmente, della qualità del servizio con criteri tutti sbilanciati a favore dei concessionari e capacità nulle di rivalsa dello Stato persino in caso di inadempienze.
In Italia, per dire, col price cup si stabilisce di quanto debbano aumentare le tariffe, ma non si discute sulla base di partenza, cioè le tariffe già in vigore al momento della privatizzazione e che dovevano servire a ripagare la costruzione dell’autostrada: “Basta dare un’occhiata ai bilanci delle concessionarie italiane – scrive Ragazzi – per vedere che il valore residuo dell’autostrada è ormai generalmente una quota modesta dell’attivo, e in molti casi si è quasi azzerato (…) Se si applica la logica della tariffa-remunerazione i pedaggi dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti o azzerati”. Capito a cosa serve l’Authority indipendente che il governo non ha voluto nell’ultima manovra?
AtomBomb
00venerdì 30 dicembre 2011 11:18
Re:
Megablast, 12/30/2011 11:10 AM:
Non ho letto un tuo commento sulla manovra CrescItalia, che mi fa subito pensare a Ronaldo.
Perché non so neanche cosa ci sia dentro
Edito: Ho letto La Stampa, allora, sulle liberalizzazioni e concorrenza non posso che appoggiarlo, certo, bisognerà vedere quanto saranno coraggiose le liberalizzazioni o se, anche questa volta, le lobby freneranno il tutto, per la concorrenza, magari ci troviamo con un antitrust vero, non solo di facciata, che elimini i cartelli, i monopoli di fatto, e magari una legge che ostacoli le too big to fail;
sul lavoro, il modello danese, la flessibilità progressiva, cioè più sei pagato meno sei tutelato e meno sei pagato più sei tutelato, è la strada giusta, ovvio che dovremo vedere quanto di quel modello si prenderà, in questo va dato atto a FLI che è stato l'unico partito in Italia a parlarne, anche se io credo che andrebbero fortemente semplificati i contratti (4 forme, indeterminato, determinato, apprendistato e stage), con paletti e regole vere, e rivisto tutto il sistema degli ammortizzatori sociali, compreso il dove prendere i soldi per pagarli, che è dispendioso, obsoleto e inefficace; il lavoro va rivisto completamente, perché bisogna aggiungerci anche periodi di perfezionamento e formazione continua dei lavoratori;